Giubileo dei detenuti. Don Grimaldi: “Promuovere la speranza, la giustizia riparativa, l’accoglienza”

I cappellani sono da sempre accanto ai ristretti per aiutarli a vivere il tempo difficile della detenzione, un impegno che continuerà anche nell’ordinarietà

Foto Calvarese/SIR

In occasione del Giubileo dei detenuti (dal 12 al 14 dicembre) Leone XIV presiederà domani la messa nella basilica di San Pietro. Nell’ambito di questo Giubileo si stanno organizzando diverse iniziative, come i “Giochi della Speranza” promossi dal Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale e organizzati dalla Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport, dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dalla rete di magistrati “Sport e Legalità”. L’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri italiane ha organizzato un programma ricco di iniziative nella Fraterna Domus di Sacrofano per il 12 e il 13 dicembre. In occasione del Giubileo dei detenuti abbiamo parlato con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane.

Foto Calvarese/SIR

Don Raffaele, quali sono le iniziative dell’Ispettorato per il Giubileo dei detenuti?

Come Ispettorato, abbiamo soprattutto organizzato una due giorni in preparazione alla celebrazione del Giubileo dei detenuti del 14 dicembre. Durante tutto l’anno ci siamo preparati a questo momento, ma a Sacrofano ci prepareremo in particolare per attraversare la Porta Santa e incontrare Papa Leone. Alla due giorni di Sacrofano interverranno più di 400 persone, tra cappellani, volontari e detenuti: ci incontreremo per dialogare, per riflettere, ma anche per stare insieme e per prepararci all’ingresso nella basilica di San Pietro. Poi il 14 ci sarà la grande messa con il Papa.

Com’è stato vissuto quest’Anno giubilare nelle carceri?

L’Anno giubilare nelle carceri è stato vissuto dai detenuti con la speranza di poter avere uno spiraglio di luce e ricevere qualche atto di clemenza, che non c’è stato, quindi c’è stata delusione da parte dei ristretti. Ma i cappellani, i volontari, gli operatori penitenziari in questo anno si sono molto impegnati all’interno dei nostri istituti penitenziari per far sì che il Giubileo potesse essere vissuto anche tra le mura delle carceri, con celebrazioni, con momenti di riflessione, con un cammino spirituale, con la presenza anche di molti pastori delle diocesi che hanno visitato le carceri. Tutto questo ha aiutato i cappellani e i detenuti a vivere per quanto è possibile il Giubileo della speranza anche negli istituti penitenziari.

Come si coniuga nella vita difficile del carcere per i ristretti la speranza e come voi cappellani cercate di portarla?

Il carcere deve essere il luogo della speranza, non dell’afflizione né della repressione, speranza perché noi cappellani portiamo il grido della speranza del Vangelo

e questo chiaramente è un messaggio che deve essere accolto, soprattutto vissuto anche all’interno del carcere, perché altrimenti si rischia che la speranza sia soltanto una parola forte, ma che tante volte i detenuti non vivono. I segni di speranza nelle carceri si possono vivere soprattutto attraverso le attività pastorali, le attività lavorative, le azioni caritative, tutto questo aiuta il detenuto a far vivere la speranza anche all’interno del carcere. È chiaro che quando non ci sono attività, quando il detenuto è chiuso nella propria cella e non vive un rapporto con la propria famiglia perché è lontana, potrebbe arrivare una forma di disperazione, di scoraggiamento. Perciò noi operatori siamo lì, per quanto è possibile, per dare l’aiuto necessario affinché questi nostri fratelli e sorelle all’interno degli istituti possano ritrovare in se stessi la speranza, che per noi la speranza è Gesù Cristo.

Purtroppo, sono tanti i suicidi in carcere e spesso avvengono quando i detenuti stanno per uscire. Cosa si dovrebbe fare in più in questo senso?

Prima di tutto rimanere accanto alle tante fragilità del carcere, perché è lì che dobbiamo infondere già la speranza, la certezza e soprattutto quella serenità che porta il detenuto ad affrontare l’uscita dal carcere senza paura. Nello stesso tempo, dobbiamo aiutare la società ad essere più accogliente, ad avere più attenzione anche verso coloro che hanno sbagliato. Certamente c’è attorno a noi una comunità che chiede soprattutto di buttare le chiavi per coloro che hanno sbagliato, perché sono sempre elementi di pericolo nella nostra società, però questo non vuol dire che bisogna generalizzare, ci sono tantissime persone che hanno il desiderio di cambiare, di rinascere, di riprendere un vero cammino sociale, però c’è bisogno che la società tenda la mano, non abbia pregiudizi, non punti sempre il dito verso coloro che hanno sbagliato. Chiaramente dobbiamo anche ricordarci delle vittime, di tutti coloro che hanno subito violenze da parte di chi sta in carcere, quindi mentre noi aiutiamo i detenuti a non perdere la speranza, soprattutto quando escono fuori dal carcere, nello stesso momento dobbiamo aiutare anche le famiglie che sono state toccate dalla violenza gratuita a ritrovare la serenità. Per questo

è importante promuovere la giustizia riparativa che permette al detenuto e alla vittima di riconciliarsi, perché solo con la riconciliazione la persona può riprendere in mano la propria vita.

Tante volte il senso di colpa e il saper di non essere perdonati portano il detenuto a non accettare più se stesso e possono essere una causa di suicidio in carcere.

Secondo lei, le nostre comunità ecclesiali sono preparate ad accogliere e sostenere gli ex detenuti?

L’accoglienza nasce dal nostro cammino di fede, dal Vangelo vissuto, quindi non dovrebbe esserci la necessità di sensibilizzare, ma c’è sempre bisogno di educare le nostre comunità a vivere anche le esperienze di limite, di fragilità, che possono essere rappresentate dai detenuti. Sarebbe anche molto bello per esempio che le nostre comunità mettessero a disposizione un punto di accoglienza per un detenuto, che esce in permesso premio, che non ha familiari, che non può tornare nel proprio paese, o per chi esce dal carcere ma non ha nessuno. Questo potrebbe essere un modo particolare per educare le persone all’accoglienza, alla condivisione e soprattutto a vivere un cammino di misericordia. A conclusione dell’Anno giubilare, il frutto di questo Giubileo potrebbe essere per molte comunità un surplus di attenzione verso i poveri, il detenuto, come una persona senza fissa dimora, un papà separato o divorziato in povertà. È un’attenzione che le parrocchie e le comunità potrebbero avere, non costa molto, basta quel poco: ciò che ci aiuta ad andare avanti non è il molto dei pochi, ma il poco dei molti e quindi questo poco dei molti lo possiamo realizzare serenamente nelle parrocchie e nelle comunità ecclesiali.

Tra poco finirà il Giubileo, come continuerà l’impegno dei cappellani nelle carceri?

Nelle carceri il cammino giubilare è stato un input importante, ma normalmente il lavoro con i detenuti lo si fa quotidianamente, indipendentemente dall’Anno giubilare, quindile attività di catechesi, le attività pastorali, le visite dei nostri vescovi, tutto questo nell’ordinarietà per continuare a far vivere la speranza all’interno dei nostri istituti penitenziari.

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