Gaza, Trump lancia un piano in 20 punti con Netanyahu: “pace perpetua” nel mirino

Trump e Netanyahu presentano un piano in 20 punti per Gaza, con cessate il fuoco, liberazione di ostaggi e governance tecnocratica sotto supervisione internazionale. Il disarmo di Hamas è condizione essenziale. Nessun ruolo per l’Autorità Palestinese. Arabia Saudita ed Egitto chiedono un chiaro percorso verso la soluzione a due Stati

(Foto ANSA/SIR)

(da New York) “Una giornata storica per la pace”: lo ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, presentando alla Casa Bianca, accanto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, un piano in 20 punti per porre fine alla guerra a Gaza e avviare una “pace perpetua in Medio Oriente”. L’annuncio, dai toni trionfalistici, ha suscitato reazioni contrastanti tra gli attori regionali e la comunità internazionale, mentre Hamas non ha ancora espresso un consenso formale.

Il piano, che prevede un cessate il fuoco immediato, la restituzione di tutti gli ostaggi entro 72 ore e il disarmo completo di Hamas, si configura come una proposta di transizione politica, economica e infrastrutturale per l’enclave palestinese. In cambio, Israele si impegnerebbe a liberare circa 2.000 detenuti palestinesi, tra cui donne e minori, e a ritirare gradualmente le proprie forze, mantenendo una zona cuscinetto di sicurezza intorno a Gaza.

Al centro della proposta, la creazione di un “Consiglio per la pace” presieduto da Trump stesso, con la partecipazione di figure internazionali come l’ex premier britannico Tony Blair. Questo organismo dovrebbe supervisionare una governance tecnocratica e apolitica, composta da esperti palestinesi e internazionali, incaricata di gestire i servizi pubblici e guidare la ricostruzione. Gli aiuti umanitari verrebbero coordinati dalle Nazioni Unite, escludendo l’ente congiunto israelo-americano creato per sovrintendere alla distribuzione degli aiuti nella Striscia.

Tuttavia, la legittimità di tale governance e la sostenibilità del piano sollevano interrogativi. Hamas, che ha finora rifiutato il disarmo e ha dichiarato difficoltà nel localizzare alcuni ostaggi, potrebbe considerare la proposta una resa incondizionata e rifiutarla. “Tutto il resto è esposto all’azione volontaria di Israele”, ha osservato, alla rete PBS, Hussein Ibish dell’Arab Gulf States Institute, sottolineando la vulnerabilità del piano in assenza di garanzie reciproche.

Anche Netanyahu ha ribadito che, in caso di rifiuto da parte di Hamas, l’esercito israeliano “finirà il lavoro”, con il pieno appoggio degli Stati Uniti. Una retorica che, se da un lato rafforza l’asse Washington-Tel Aviv, dall’altro rischia di compromettere il coinvolgimento dei partner arabi. Arabia Saudita ed Egitto, in particolare, chiedono un percorso chiaro verso una soluzione a due Stati e un ruolo significativo dell’Autorità Nazionale Palestinese nella futura governance.

Il piano, pur lasciando aperta la possibilità di uno Stato palestinese sovrano, evita l’espressione “soluzione a due Stati”, preferendo riferimenti all’“aspirazione del popolo palestinese all’autodeterminazione”.

Una scelta lessicale che riflette le tensioni interne alla diplomazia americana e israeliana, e che potrebbe ostacolare il sostegno finanziario da parte di Riyadh e altri attori regionali.

Sul fronte interno, sia Trump sia Netanyahu affrontano pressioni crescenti. Il presidente americano, in cerca di una svolta diplomatica, si espone a uno dei rischi più alti del suo mandato, mentre il premier israeliano è stretto tra le richieste dell’esercito, l’opinione pubblica e le aspettative dell’alleato statunitense. Intanto, i sondaggi indicano un cambio generazionale negli Stati Uniti: i giovani, sia a sinistra sia a destra, mostrano crescente scetticismo verso il sostegno incondizionato a Israele, soprattutto alla luce del bilancio umano del conflitto e della mancanza di prospettive per uno stato palestinese.

In Israele, invece, le nuove generazioni sembrano orientarsi verso posizioni più nazionaliste e religiose, con minore empatia verso la causa palestinese. Un divario che potrebbe accentuare le tensioni tra Washington e Tel Aviv negli anni a venire, rendendo più difficile la costruzione di una pace condivisa.