Questa domenica 8 e lunedì 9 giugno gli italiani aventi diritto sono chiamati alle urne per esprimere il loro “sì” o il “no” ai cinque referendum ritenuti ammissibili nel gennaio scorso dalla Corte Costituzionale: si tratta dei quattro riguardanti il mondo del lavoro (proposti dalla CGIL) – contratto di lavoro a tutele crescenti, licenziamenti nelle piccole imprese, durata dei contratti di lavoro, responsabilità solidale nei subappalti – e del quinto riguardante il dimezzamento del periodo di residenza richiesto agli stranieri per ottenere la cittadinanza italiana (proposto da +Europa, Possibile, Partito Socialista Italiano, Radicali Italiani e Rifondazione Comunista, oltre a numerose associazioni); mentre, come si ricorderà, era stato dichiarato inammissibile il referendum sulla legge sull’autonomia differenziata. E’ noto a tutti che l’istituto del referendum abrogativo (il solo vigente in Italia) prevede per la sua validità il raggiungimento del cosiddetto “quorum” (diciamolo una volta: dal genitivo del pronome latino che significa “dei quali”, nella proposizione dipendente: “dei quali è necessario il voto perché risulti valido”). Dunque, chi sceglie di non andare a votare, o, semplicemente – come surrettiziamente si è espressa la presidente del Consiglio Giorgi Meloni – di rifiutare ogni scheda pur andando al seggio, compie l’esplicito gesto politico e democratico, garantito dalla natura dell’istituto stesso, di contribuire a invalidare quel referendum, praticamente bocciando il quesito proposto. Una constatazione elementare che non dovrebbe suscitare grandi clamori! Anche perché il ricorso all’astensione esplicita è stato compiuto in altri tempi e in altre circostanze da molti insospettabili: dopo i grandi successi dei referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1981) – che riguardavano, come s’intuisce, materie molto coinvolgenti e dirimenti –, la storia delle propugnate astensioni può partire dal 1985 quando il super-democratico Marco Pannella la suggerì per il referendum sulla scala mobile, e poi nel 1991 quando Bettino Craxi invitò tutti ad “andare al mare” piuttosto che votare sull’abolizione delle preferenze multiple; anche Matteo Renzi nel 2016 fece intendere che era meglio astenersi per non affondare la sua Riforma costituzionale; ma la liceità della scelta – contro ogni pretestuoso rigorismo – emerge platealmente ricordando che lo stesso Sergio Cofferati, che era stato fino all’anno prima segretario generale della CGIL, si fece nel 2003 esemplare astensionista (seguito dagli altri partiti della sinistra) sul referendum proposto da Rifondazione Comunista per estendere i benefici dell’art.18 (sui licenziamenti discriminatori) alle imprese con meno di 16 dipendenti; nonché menzionando l’invito ufficiale all’astensione da parte del cardinale Camillo Ruini, allora presidente della Conferenza episcopale italiana, nel referendum sulla fecondazione assistita (“per non peggiorare la legge esistente”). Ciò appurato, veniamo brevemente al merito dei quesiti. I primi quattro, sul lavoro, risultano piuttosto complessi per un comune cittadino, nonché discutibili per chi intenda riflettervi, tanto che ci sono divisioni pure all’interno del centrosinistra e dello stesso Pd sul “sì” o sul “no”, mentre il centrodestra non fa misteri – anche ad alto livello (il presidente del Senato Ignazio La Russa e il ministro degli esteri Antonio Tajani, tra i primi) – sull’invito all’astensione per tutti e cinque. Lo scopo dei quattro nel loro insieme, tendenzialmente, è, com’è giusto che sia, quello di agevolare i lavoratori e assegnare maggiori responsabilità sulla sicurezza nel lavoro; ma si nutrono dubbi sulla tenuta delle imprese, la cui compressione o il cui eventuale fallimento provocherebbero addirittura il venir meno dell’occupazione stessa… Il quinto, sul dimezzamento dei tempi per ottenere la cittadinanza (da 10 a 5 anni; ma si sa che la burocrazia già di fatto li aumenta di circa 18 mesi…), in molti, a partire dalle numerose associazioni proponenti, invitano a votare “sì”. Particolarmente emblematico l’invito in tal senso da parte del direttore di Caritas Italiana don Marco Pagniello che definisce il dimezzamento degli anni come un “atto di giustizia e di inclusione”, dato che i primi a beneficiarne sarebbero i figli minori degli immigrati. E precisa: “L’ottenimento della cittadinanza in tempi congrui da parte di donne e uomini che contribuiscono con il loro lavoro al benessere dell’intera collettività, corrisponde al riconoscimento della dignità delle persone”. Tra l’altro, ricorda che, in ogni caso, rimangono le condizioni fondamentali: un reddito adeguato, l’assenza di condanne, la continuità del soggiorno… Negli altri Paesi europei i tempi sono già inferiori, anche se c’è chi obietta citando i rischi delle emergenti rivalse delle seconde e terze generazioni. Ma, in conclusione, è l’istituto referendario che andrebbe riformato e limitato, almeno aumentando il numero di firme necessario per proporlo e, soprattutto, ricordando che devono essere i parlamentari a legiferare in modo adeguato, dato che sono pagati per questo!
Sui referendum
Questa domenica 8 e lunedì 9 giugno gli italiani aventi diritto sono chiamati alle urne per esprimere il loro “sì” o il “no” ai cinque referendum ritenuti ammissibili nel gennaio scorso dalla Corte Costituzionale: si tratta dei quattro riguardanti il mondo del lavoro (proposti dalla CGIL) - contratto di lavoro a tutele crescenti, licenziamenti nelle piccole imprese, durata dei contratti di lavoro, responsabilità solidale nei subappalti - e del quinto riguardante il dimezzamento del periodo di residenza richiesto agli stranieri per ottenere la cittadinanza italiana.