Noi e lo Stato: il Festival fissa i paletti

Nella festa del 2 giugno ci siamo riconosciuti ancora una volta concittadini (non sudditi, com’era prima del 1946). Ma la pandemia ci ha portato a sentire in modo nuovo la comune appartenenza allo Stato: con i suoi Dpcm e i ristori, i coprifuoco e anche i vaccini. Al Festival dell’Economia di Trento si vuole approfondire appunto in questa sedicesima edizione una macroscopica conseguenza della pandemia: “Il ritorno dello Stato”. Un tema dal titolo generico, che va ben al di là dell’impatto crescente che le scelte del governo centrale hanno avuto sulla libertà di movimento e di comportamento di ciascuno di noi: eccessive, a detta degli strenui paladini dei diritti individuali; necessarie, per chi come noi le considera finalizzate al bene comune.

Nella festa del 2 giugno ci siamo riconosciuti ancora una volta concittadini (non sudditi, com’era prima del 1946). Ma la pandemia ci ha portato a sentire in modo nuovo la comune appartenenza allo Stato: con i suoi Dpcm e i ristori, i coprifuoco e anche i vaccini. Al Festival dell’Economia di Trento si vuole approfondire appunto in questa sedicesima edizione una macroscopica conseguenza della pandemia: “Il ritorno dello Stato”. Un tema dal titolo generico, che va ben al di là dell’impatto crescente che le scelte del governo centrale hanno avuto sulla libertà di movimento e di comportamento di ciascuno di noi: eccessive, a detta degli strenui paladini dei diritti individuali; necessarie, per chi come noi le considera finalizzate al bene comune.
É proprio nell’ambito economico che lo Stato è stato chiamato a fare il pugno forte nella necessità di affrontare la crisi, attraverso scelte inevitabilmente pesanti per alcuni settori economici e relative categorie. È evidente che non tutti sono stati colpiti allo stesso modo dalle limitazioni e dal crollo della produzione: toccava al settore pubblico esercitare un ruolo di tampone con interventi speciali, quali l’immissione di denaro, la riduzione dei tassi e il blocco dei licenziamenti. E quest’azione di “pronto soccorso” si è prolungata necessariamente anche nella programmazione per ottenere risorse europee per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Ammettiamolo però: si è trattato di una fase di supplenza di fronte ad un’emergenza epocale, una di quelle situazioni straordinarie che esigono anche misure proporzionate. E che non a caso ha trovato in Mario Draghi una sorta di “commissario straordinario” in grado di motivare e cementare una maggioranza politica molto eterogenea.
Quanto prima, però, bisogna tornare a restituire allo Stato il suo ruolo che non è quello di un imprenditore concorrente, come lo stesso Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha rilevato lunedì 31 maggio nelle sue Considerazioni: “Lo Stato deve offrire servizi al mondo dell’economia, non diventare imprenditore. La sua azione dovrà essere complementare, non contrapposta, a quella delle imprese che operano sul mercato”. Non uno Stato vorace, ma uno Stato vigilante che eserciti un’azione di regolazione – giacchè è bene che il libero mercato non si trovi in una condizione di anarchica assenza di leggi – ma soprattutto di orientamento perchè il libero esercizio dell’attività economica non finisca per creare situazioni di sbilanciamento, a rischio oligopolistico.
Vale anche a livello locale, dove la funzione della Provincia – come spiega bene il nostro esperto Paolo Spagni nella sua rubrica “Trend” a pag. 6 – è sì anche quella di “fare” e di “imporre”, ma soprattutto di “incoraggiare” e di “stimolare”, come prevedono le stesse leggi provinciali talvolta disattese nei loro obiettivi.
Prendendo le distanze da uno Stato “vorace” e da un mercato sregolato, che è talvolta in preda alla “follia” (secondo l’espressione di Peter Ubel ) e che punta a salire sul carro di una ripartenza assistita, abbiamo dimenticato la terza gamba, quella del Terzo Settore, di cui pure si parlerà al Festival (vedi pag. 6). È costituito in gran parte da cooperative sociali – nove realtà su dieci secondo il recente Rapporto Iris Network – che non solo nel passato hanno costretto lo Stato ad innovare ma che anche nella fase della pandemia hanno dimostrato la loro resiliente capacità di tenuta e di rilancio. Non può uno Stato moderno non valorizzare gli stimoli di motivazione e di prospettiva che il “privato sociale” – come lo definiva Tarcisio Grandi, citando Achille Ardigò – può offrire anche sul piano culturale: si pensi ad esempio all’errore storico di rendere statale la gestione dell’acqua per fini idroelettrici quando le cooperative locali avevano già dimostrato capacità gestionale.
In questi giorni, saltando in presenza da un incontro all’altro del Festival dell’Economia o riascoltando in streaming dibattiti e interviste, piacerebbe sentire un termine che pure la pandemia ha temporaneamente silenziato: il principio di sussidiarietà, ovvero quell’equilibrio virtuoso fra i vari livelli dello Stato, in grado di farsi contaminare da quanto le imprese sociali, le più vicine alla gente, sanno offrire come proposte di innovazione. Non è un pallino della dottrina sociale, ma è un principio introdotto finalmente nella Costituzione con la riforma del titolo V nel 2001.

(*) direttore “Vita Trentina” (Trento)

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