
(da Perugia) Il “paracadutismo giornalistico”, ossia spedire i giornalisti per un periodo breve a seguire una storia nei Paesi in via di sviluppo, è una pratica di giornalismo che ha ancora senso ma va fatta con buona conoscenza del contesto in cui si viene “paracadutati”, per una narrazione rispettosa delle comunità locali ma anche adeguata al tipo di audience cui si parla. È quanto emerso dal panel “Raccontare i Paesi in via di sviluppo”, tra le centinaia di incontri nell’ ambito del Festival internazionale del giornalismo in corso a Perugia dal 3 al 7 aprile. Paul Myles, responsabile di “On our radar” – testata inglese che ha la mission di raccontare le storie degli esclusi dalla narrazione dei media -, ha spiegato come riescono a coinvolgere nella produzione di contenuti “giornalisti di comunità” presi dai gruppi più marginalizzati, ad esempio inviando sms dalla Siria che poi vengono confezionati dagli esperti. Per Elisa Anyangwe, camerunense, fondatrice di “The Nzinga effect”, testata che ha lo scopo di diffondere una corretta narrazione sulle donne africane, il “paracadutismo giornalismo” ha senso “se costruisce relazioni con le persone, per raccontare le loro storie”. Secondo Emanuela Zuccala’, giornalista free lance, “è importante conoscere il pubblico dei propri lettori ed usare un linguaggio semplice ed accessibile per raccontare l’Africa, perché spesso le persone non sanno nemmeno dove collocare un Paese africano sulla cartina. Perciò una buona narrazione deve essere rispettosa sia della storia, sia dei lettori”. E anche se le redazioni italiane non hanno corrispondenti nei Paesi in via di sviluppo né tanti soldi per mandare inviati, “il paracadutismo giornalismo” ha ancora “un enorme potenziale e non è una cosa del passato”.