“La più grande epidemia di Ebola” sta colpendo in questi mesi la Repubblica Democratica del Congo: “907 persone sono colpite dall’ebola, 516 di loro sono morti in sette mesi. Due centri sono stati attaccati nell’epicentro dell’epidemia, a Katwa e Butembo, e siamo stati costretti a sospendere le nostre attività”. È la presidente internazionale di Medici Senza Frontiere, Joanne Liu, che in conferenza stampa stamane a Ginevra spiega “la grande ostilità nei confronti della risposta all’ebola” fatta di “oltre 30 incidenti e attacchi a personale”. “Il problema non è la comunità”, ha spiegato Liu: “La nostra responsabilità collettiva è avere la loro fiducia e renderli protagonisti della risposta”. “Abbiamo strumenti e innovazioni di cui prima non ci sognavamo, una grande mobilitazione di risorse”, racconta ancora Liu. “Più di 80mila persone sono state vaccinate, ma i segni sono che l’ebola non è sotto controllo. In 7 mesi gli indicatori non sono normali. 40% delle morti avvengono nelle comunità, 35% deli nuovi contagi non sono riconducibili a catene di trasmissione per cui non sappiamo come siano stati contagiati. Chi arriva in ritardo non riesce a guarire”. Tutto questo avviene in un “contesto di guerra e di povertà endemica in cui anche le malattie normali sono mortali e dove gli appelli continui a lavarsi le mani si scontrano con la mancanza di sapone e acqua pulita”. Anche “la risposta viene considerata strumento politico”. Perché l’ebola porta con sé “isolamento e sofferenza”: il paziente non può essere toccato, le condizioni di cura non sono attraenti, al punto che “molti preferiscono stare nelle comunità, piuttosto che nei centri di cura”. Perché la risposta sia efficace deve essere “considerata legittima e affidabile”: servono “vaccini per più persone, formare persone nelle comunità, trattare i malati come persone umane non come minacce biologiche, ascoltare i bisogni, non usare la forza”. “La risposta”, ha concluso la presidente, “deve essere umana e noi tutti siamo responsabili se ciò non avviene”.