L’obiettivo non è “avere una legge, ma di averne una buona, che si inserisca nel saldo impianto personalista della nostra Carta costituzionale. (…) Ben più che a decidere tempi e modi della propria morte, ogni malato ha diritto di percepire che la trama di relazioni che ne ha sostenuto l’esistenza non si sta sfaldando e che la collettività, anche attraverso il sistema sanitario, continua a ribadirgli in modo concreto e credibile: ‘Noi ci prendiamo cura di te'”. Così padre Giacomo Costa, direttore di “Aggiornamenti sociali”, conclude l’editoriale dell’ultimo numero della rivista dedicato alla discussa sentenza sul caso Cappato-dj Fabo. “Ricevere cure – premette – è un diritto da garantire a chi ne ha bisogno, mai un obbligo che si possa imporre al malato”. Cosa diversa però è “la rivendicazione del diritto a morire”. Un ipotetico “diritto al suicidio assistito”, peraltro incompatibile con la nostra legislazione, aprirebbe al rischio di una “progressiva estensione a casi sempre meno estremi finendo per legittimare il suicidio come opzione ordinaria di soluzione dei problemi” mentre “il diritto alla sospensione delle cure contiene invece il proprio limite”. Sebbene l’editoriale non intenda commentare il merito della sentenza, anche perché non ne sono ancora state pubblicate le motivazioni, p. Costa rileva che “la Corte tratta il suicidio assistito come una terapia, e quindi tutela la libertà di scelta terapeutica da parte del paziente consentendovi l’accesso. Ma – puntualizza – la somministrazione di un farmaco letale al solo scopo di procurare la morte non può essere definita un atto terapeutico e quindi una delle possibilità tra cui si ha diritto a scegliere”. Di qui la necessità di predisporre “una nuova normativa che definisca un quadro di riferimento adeguato al nostro contesto”.