Viaggi apostolici
“Il vescovo deve crescere nella capacità di lasciarsi scomodare” dai suoi sacerdoti: “Lasciare che la pasta si scuocia e tutto si raffreddi”, pur di rispondere alle loro richieste, come fa un padre con i suoi figli. Lo ha detto, a braccio, il Papa, al termine del discorso rivolto ai vescovi del Centroamerica, da Panama. “Mi preoccupa che la compassione ha perduto posto nella vita della Chiesa”, ha detto ancora fuori testo nel suo lungo discorso, durato quasi un’ora: “Anche nei mezzi di comunicazione cattolici non c’è la compassione, c’è la condanna, la denuncia di quello che non va”. “Avere l’agenda piena va bene, ma se vedete una chiamata di un sacerdote, oggi o al massimo domani dovete richiamarlo”, la raccomandazione a braccio ai vescovi: “È sempre buona cosa chiederci come pastori: quanto mi tocca la vita dei miei sacerdoti? Sono capace di essere un padre o mi consolo con l’essere un mero esecutore? Mi lascio scomodare? Ricordo le parole di Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato parlando ai suoi connazionali: ‘Cristo non ci ha promesso una vita comoda. Chi cerca la comodità con Lui ha sbagliato strada. Egli ci mostra il percorso che porta alle cose grandi, al bene, a una vita umana autentica’”. “Sappiamo che il nostro lavoro, nelle visite e negli incontri che svolgiamo, specialmente nelle parrocchie, ha una dimensione e una componente amministrativa che è necessario portare avanti”, ha riconosciuto Francesco: “Bisogna assicurarsi che venga fatto, ma questo non significa che spetti a noi utilizzare il poco tempo che abbiamo in adempimenti amministrativi. Nelle visite, la cosa fondamentale e che non possiamo delegare è l’ascolto. Ci sono tante cose che facciamo ogni giorno che dovremmo affidare ad altri. Quello che non possiamo delegare, invece, è la capacità di ascoltare, la capacità di seguire la salute e la vita dei nostri sacerdoti. Non possiamo delegare ad altri la porta aperta per loro. Porta aperta per creare le condizioni che rendano possibile la fiducia più che la paura, la sincerità più che l’ipocrisia, lo scambio franco e rispettoso più che il monologo disciplinare”. Poi la citazione di Rosmini: “Certo, solo grandi uomini possono formare altri grandi uomini. Nei primi secoli, la casa del vescovo era il seminario dei preti e dei diaconi; la presenza e la santa conversazione del loro prelato era un’infuocata lezione, continua, sublime, dove si apprendeva la teoria nelle sue dotte parole, congiunta alla pratica nelle sue assidue occupazioni pastorali. E in tal modo accanto agli Alessandri si vedevano allora crescere bellamente i giovani Atanasi”. “La povertà è madre e muro”, ha concluso il Papa: “Madre, perché ci chiama alla fecondità, alla generatività, alla capacità di donazione che sarebbe impossibile in un cuore avaro o che cerca di accumulare. E muro, perché ci protegge da una delle tentazioni più sottili che noi consacrati dobbiamo affrontare, la mondanità spirituale: il rivestire di valori religiosi e ‘pii’ la sete di potere e di protagonismo, la vanità e persino l’orgoglio e la superbia. Muro e madre che ci aiutano ad essere una Chiesa sempre più libera perché centrata nella kenosis del suo Signore. Una Chiesa che non vuole che la sua forza stia – come diceva Mons. Romero – nell’appoggio dei potenti o della politica, ma che si svincoli con nobiltà per camminare sorretta unicamente dalle braccia del Crocifisso, che è la sua vera forza. E questo si traduce in segni concreti ed evidenti; questo ci interroga e ci spinge ad un esame di coscienza sulle nostre scelte e priorità nell’uso delle risorse, delle influenze e delle posizioni. La povertà è madre e muro perché custodisce il nostro cuore perché non scivoli in concessioni e compromessi che indeboliscono la libertà e la parresia a cui il Signore ci chiama”.