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Vulnerabilità: Casale (Antea), “gli hospice non sono luoghi dove si accolgono gli ‘inutili’ prossimi alla morte”

“Le cure palliative non sono un modo per morire meglio ma per vivere meglio gli ultimi momenti di vita”. A ribadirlo è Giuseppe Casale, coordinatore sanitario degli hospice Antea onlus, al convegno sulla vulnerabilità in corso a Roma. “Si sta rivedendo il concetto che il paziente non debba più morire in ospedale ma che possa essere accolto in hospice – ha detto -. Purtroppo nella mentalità generale viene visto l’hospice come un posto dove le persone muoiono, ma è un luogo che accoglie delle persone che devono vivere. Le cure palliative si prendono cura della persona. Per una persona che sta male, molto spesso il sintomo più insopportabile è la fatica e la stanchezza che rende difficili attività quotidiane. Una volta attenuati i sintomi, il paziente ha ancora altri problemi come quelli psicologici che non gli permettono di accettare il proprio aspetto fisico. Va poi affrontato il tema ‘Perché proprio a me è toccato tutto questo?’, scatta quindi quel dramma che attanaglia tutti. È un dramma a cui è difficile rispondere sebbene nelle cure palliative sia previsto anche questo supporto. Gli hospice non sono luoghi dove si accolgono gli ‘inutili’ prossimi alla morte”. “Nella famiglia – ha osservato – si innescano delle consuetudini teatrali: quando si entra nella stanza del malato si sorride, ma è un sorriso falso. Nelle cure palliative si cerca di far riconsiderare il paziente come una persona. Solo un medico non può farlo, serve una squadra. Sono tantissime le persone che vediamo morire, in media ogni operatore dell’Antea ne vede 70. La cosa positiva è che non si abituano a veder morire. Ogni operatore non si improvvisa perché non è facile confrontarsi con la vita del paziente. Essere medico non basta – ha concluso -, va considerato il contesto familiare e la storia della persona”.