Corrente neo-pentecostale evangelica, la “teologia della prosperità” si è diffusa negli Stati uniti dov’è nata, ma anche negli altri continenti, e affonda le radici nella convinzione che “Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e individualmente felici”. Ad illustrare il fenomeno, sul quale Papa Francesco è più volte intervenuto indicandone i pericoli, sono i gesuiti Antonio Spadaro e Marcelo Figueroa su “La Civiltà Cattolica” (quaderno 4034 in uscita sabato 21 luglio). “Questo tipo di cristianesimo – osservano – colloca il benessere del credente al centro della preghiera, e fa del suo Creatore colui che realizza i suoi pensieri e i suoi desideri”. Un “antropocentrismo religioso” che rischia di “trasformare Dio in un potere al nostro servizio” e fa riferimento “al cosiddetto American dream”, identificandosi con una sua interpretazione riduttiva”. In questo quadro non c’è posto per la solidarietà: la povertà è segno di mancanza di fede e comunque “colpa” del fedele. Inoltre, la visione della fede proposta dalla “teologia della prosperità” è “in chiara contraddizione con la concezione di un’umanità segnata dal peccato e con l’aspettativa di una salvezza escatologica, legata a Gesù Cristo” incarnando “una forma peculiare di pelagianesimo dalla quale Francesco ha messo spesso in guardia”, ed esprime “anche l’altra grande eresia del nostro tempo, cioè lo ‘gnosticismo’”. Sin dall’inizio del suo pontificato, scrivono i due gesuiti, “Francesco ha avuto presente” questo “vangelo diverso” e “criticandolo, ha applicato la classica dottrina sociale della Chiesa. Più volte lo ha richiamato per porne in evidenza i pericoli”. La prima volta in Brasile, il 28 luglio 2013, rivolgendosi ai vescovi del Consiglio episcopale latinoamericano, quindi parlando con i vescovi di Corea, nelle omelie di Santa Marta fino alle messe in guardia da pelagianesimo e gnosticismo contenute in “Gaudete et exsultate”.