
“Una bella esperienza di ordinaria integrazione in Italia arriva dalla Varese del neo governatore lombardo Attilio Fontana, che nel suo programma elettorale chiudeva agli immigrati irregolari (‘chi non ha diritto di rimanere deve essere rimpatriato’), aprendo, invece, a ‘coloro che vogliono rispettare le nostre regole’, con la Lombardia che – ricorda il successore di Maroni – ‘ha dimostrato di essere una delle poche regioni ad applicare percorsi di integrazione’. Vero e lo dimostra proprio la ‘sua’ Varese, dove da un paio d’anni una rete di parrocchie e volontari donano spazi e tempo ai rifugiati”. Lo racconta il nuovo numero di Scarp de’ tenis, rivista di strada promossa da Caritas Ambrosiana e Caritas Italiana, che presenta un dossier dal titolo “Siamo davvero razzisti?”. “Come attività in favore di richiedenti asilo e rifugiati l’esperienza di Caritas nacque già una quindicina di anni fa – specifica Mario Salis, vicepresidente della cooperativa Intrecci e segretario della Caritas zonale di Varese – ma, dopo l’appello di Papa Francesco e l’esortazione dell’allora arcivescovo di Milano, Angelo Scola, nell’estate 2015 s’iniziò a ragionare sull’opportunità di coinvolgere le parrocchie per un’accoglienza diffusa: una progettazione diversa e nuova anche per noi”. Una decina oggi le realtà coinvolte, con una cinquantina di ragazzi accolti. Si legge nel dossier. Come funziona concretamente il tutto e chi sono gli ospiti? La Caritas fa da raccordo con la Prefettura e la cooperativa Intrecci coordina le iniziative. “Nelle parrocchie non sono state inserite persone in arrivo dal centro d’accoglienza di Bresso, ma chi è transitato dai due piccoli centri collettivi (una ventina di posti ciascuno) che la cooperativa Intrecci gestisce sul territorio: una struttura presso i Padri comboniani a Venegono Superiore e Casa Onesimo a Busto Arsizio. Gli ospiti, dopo quattro o cinque mesi di permanenza, vengono scelti in base a una serie di parametri (documenti in regola, rispetto delle regole, partecipazione ai corsi d’italiano), in modo che lo spostamento nelle parrocchie possa tramutarsi in una sorta di seconda accoglienza”.
Il punto di forza è piccoli numeri, che favoriscono l’integrazione e “dimostrano come l’accoglienza sia davvero possibile, se non lasciata a se stessa e interpretata come qualcosa che debba succedere per prodigio”. Come sta andando il tutto dopo due anni? “Sono nati progetti piuttosto diversificati – racconta Salis –. A Cocquio Trevisago, per esempio, dopo un inizio un po’ difficile, è stato siglato un accordo con il Comune per impegnare tre ragazzi, ora sei, in attività di volontariato e lavori socialmente utili. Ci sono periodicamente controlli da parte dei dirigenti della Prefettura che un mesetto fa hanno visitato quattro delle nostre strutture, trovando gli ospiti molto sereni, tranquilli e consapevoli dell’opportunità di un’accoglienza in cui possono incontrare persone e non solo operatori. Un’esperienza che, qualunque sarà l’esito e l’eventuale prosieguo del loro tragitto d’inclusione, sicuramente lascerà il segno”.