Vita

Bioetica: mons. Paglia (Pav) in Messico, la relazione è l’antidoto al modello tecnocratico

Di fronte alla “manipolazione dell’umano” prodotta da una tecnologia che diventa sapere assoluto, la Chiesa ribadisce l’importanza della “qualità delle relazioni”, soprattutto al momento iniziale della vita, quando sono i genitori, forti del loro rapporto, a dare un significato alla nascita di un figlio e ad inserire il loro percorso di famiglia nel piano di Dio nella storia. Lo ha affermato mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita (Pav), intervenendo oggi alla conferenza “Sfide della cultura della vita” tenutasi nella Sezione messicana del Pontificio Istituto teologico Giovanni Paolo II per le scienze del matrimonio e della famiglia a Città del Messico. La relazione è l’antidoto al modello tecnocratico, ha osservato mons. Paglia, e “forse non è casuale che le aree del pianeta dove si vive una dinamica demografica negativa (inverno) sono quelle in cui questa logica tecnocratica è maggiormente presente e praticata”. Per mons. Paglia, il poter “disporre” dell’essere umano, la “svolta tecnocratica” e l’“indiscriminato sfruttamento” della natura sono le caratteristiche dell’odierna “ragione strumentale” che “alleata con i poteri economici, si impone come paradigma tendenzialmente esclusivo, a scapito di altre dimensioni o forme di ragione”. La risposta della Pav e del mondo cattolico può e deve mettere al centro la relazione, ricordare che l’umanità è creata e non autosufficiente, riflettere sulla necessità di una “Global Bioethics” per poter affrontare le disuguaglianze nell’accesso alle cure e ai saperi tecnico-scientifici allo scopo di ridurne i drammatici effetti su tanta parte dell’umanità. Nella sua relazione, il presidente della Pav ha individuato tre “segni dei tempi” cui prestare attenzione per non disperdere il patrimonio dei valori. Il primo “è la nascita e lo sviluppo della bioetica stessa che rappresenta un campo di incontro e di dialogo tra diversi saperi, senza rinunciare a una interpretazione critica e a un richiamo anche energico alle responsabilità che loro spettano”. Il secondo segno “è la crescente sensibilità e diffusione delle cure palliative” che “introducono nella pratica clinica la consapevolezza del limite ma anche non abbandonare le persone malate e accompagnarle nella difficile prova alla conclusione della vita: quando non c’è più niente da ‘fare’ emerge la relazione: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti”. Infine, la necessità di inserire la bioetica medica classica in una riflessione più ampia, per non limitarsi alle problematiche dei Paesi avanzati. Infatti – ha osservato – è “sempre più importante avviarci verso una visione di ‘Global Bioethics’ perché occorre interpretare in una nuova luce le domande sull’accesso alle cure, sulle priorità che indirizzano l’uso delle risorse, sulle disuguaglianze nella promozione della salute e sul ruolo e la distribuzione delle tecnologie e dei saperi che ne rendono possibile l’uso e lo sviluppo”.