(DIRE-SIR) – “Un via vai di carretti stracarichi” e poi, senza sosta, “i colpi di martello per smontare i pali delle tende” una musica, racconta padre Federico Trinchero, che i missionari del convento Notre Dame du Mont Carmel a Bangui “non dimenticheranno mai”. Proprio come i volti dei profughi, rientrati finalmente nei loro quartieri, a casa. “Non pensavamo che sarebbe finita così presto” spiega alla Dire padre Federico, in collegamento Skype. Di certo sono stati tre anni intensi, anche se ora sembrano scomparsi d’improvviso. Di fronte al convento non c’è più la tendopoli con le “frotte di bambini”, ma solo un piazzale deserto e disabitato. “Come fosse passato un tifone” annota il missionario, che ha appena condiviso le ultime notizie da Bangui in una lettera inviata agli amici in Centrafrica e all’estero.
Il ritorno a casa dei profughi, che nella fase più acuta del conflitto civile al Carmel erano addirittura 10 mila, è stato possibile grazie a un aiuto internazionale.
“Da gennaio un progetto finanziato dall’Alto Commissariato per i profughi dell’Onu, in collaborazione con il governo centrafricano e altri partner, ha permesso a tutti i nostri profughi di poter rientrare finalmente nei quartieri della città e di riprendere una vita normale” scrive padre Federico. “Ogni famiglia ha ricevuto un piccolo sostegno economico alle sole condizioni di trasportare tutte le proprie masserizie nella nuova residenza, smantellare la propria tenda e abbandonare definitivamente il campo. La partenza era libera e nessun è stato obbligato ad abbandonare il campo; ma, di fatto, tutti hanno accettato volentieri di partire”.
Il presupposto è che, almeno nella capitale, sono cessati gli scontri tra Seleka, Anti-Balaka e le altre milizie deflagrati nel 2013. “Tutto questo è stato possibile non solo grazie al piccolo incentivo economico, ma soprattutto per la situazione di tranquillità e sicurezza che ormai si è creata nella capitale” sottolinea il missionario. “Il nuovo clima ha incoraggiato i nostri profughi a compiere il grande passo e a iniziare una nuova vita nel quartiere di origine oppure in un altro quartiere della città”.
Molti tornano perfino nel Pk4, il quadrante di Bangui a maggioranza musulmana, già epicentro di agguati, esecuzioni sommarie e rappresaglie, un’area dove le devastazioni sono state più gravi e si è sofferto di più. Racconta padre Federico: “Per giorni, al Carmel, è stato un via vai di carretti stracarichi, che ritornavano vuoti per essere ancora caricati e ripartire; poi un risuonare di colpi di martello per smontare i pali delle tende: una musica che non dimenticheremo mai. Erano arrivati correndo, scappando dalla guerra, con la paura sul volto e poche cose in mano o sul capo, raccolte di corsa, per sopravvivere chissà come e chissà fino a quando. Ora, invece, ripartivano con più calma, quasi come convinti dalla pace, con la speranza sul volto, qualche figlio in più e spingendo carretti carichi di sogni e progetti. I profughi erano contenti di partire. E anche noi eravamo contenti; ma, inevitabilmente, c’è stata anche un po’ di tristezza per non averli più tra noi”.