Papa in Myanmar: gli aiuti umanitari delle organizzazioni cattoliche a minoranze e sfollati

(da Yangon) – In Myanmar, negli Stati del nord o di confine dove vivono i Kachin, gli Akkha, gli Shan, i Chin o nelle zone del Kayak e di Pathein,  poche organizzazioni cattoliche cercano di intervenire per migliorare la vita nelle comunità. Superando  ostacoli burocratici e lentezze, si riesce faticosamente ad avere accesso. Sono tutte zone dove sono in corso da anni conflitti a bassa intensità tra piccole guerriglie (che cercano in questo modo di rivendicare diritti) ed esercito, con almeno 400.000 sfollati interni sistemati in campi profughi senza la possibilità di intravedere una possibilità di ritorno nelle proprie case e terre. Spesso queste tensioni – presentate come etniche e religiose – nascondono in realtà interessi ben più pressanti, di potentati economici che vogliono sfruttare le ricchissime risorse naturali del Myanmar: il gasdotto che passa nel Rakhine, le terre dei Kachin, e poi il petrolio, la giada e le altre pietre preziose, le riserve di acqua e legname (dopo il Brasile e l’Indonesia il Myanmar il terzo Paese al mondo con la più vasta deforestazione selvaggia),  le coltivazioni di oppio al confine con la Thailandia. Nella zona di Keng Tung nello Shan State, ad esempio, l’Ong “New Humanity”, promossa dai missionari del Pime  sta portando avanti un progetto per lo sviluppo sostenibile tramite l’agricoltura, la riforestazione e l’educazione dei giovani. I primi tre anni sono stati finanziati grazie ad un contributo dell’8×1000 della Cei di circa 150.000 euro. Qui vive una piccola minoranza di circa 500.000 persone, gli Akkha. “Abbiamo portato l’acqua a migliaia di famiglie che vivono nel villaggio di Loimué, difficilmente accessibile perché isolato sulle montagne – spiega U Naing Htun, amministratore locale di New Humanity -. È stato realizzato un impianto ad energia solare per l’acquedotto e la raccolta dell’acqua piovana”. Nel Kachin State, invece, dove vivono da sei anni almeno 120.000 sfollati interni, l’arcidiocesi di Yangon e la Caritas hanno intenzione di intervenire per portare aiuti e sostegno. Molti sono lì perché hanno preferito fuggire pur di non essere arruolati tra le fila della guerriglia locale. Le tensioni sociali non si sono ancora spente: di recente è stato fatto un accordo con i cinesi per l’estrazione della giada ma la popolazione locale non concorda sullo sfruttamento indiscriminato delle loro terre e ha cominciato di nuovo a lottare. In questi campi la Caritas del Myanmar sostiene circa 40.000 famiglie, con piccole somme per coprire i bisogni di base. Ma la strada del ritorno è ancora lontana.

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