Il clima bene comune

Italo Calvino lo avrebbe chiamato un sole giaguaro, lui che così definì le calure del Messico. Il guaio è che, cronaca della scorsa settimana, questo sole feroce si è palesato in luoghi della terra dove mai era arrivato prima. Così il Canada ha toccato i 49,6 gradi e la Russia artica i 40. Ci sono state centinaia di vittime e anche il pianeta, stando così le cose, non sta bene.

Italo Calvino lo avrebbe chiamato un sole giaguaro, lui che così definì le calure del Messico. Il guaio è che, cronaca della scorsa settimana, questo sole feroce si è palesato in luoghi della terra dove mai era arrivato prima. Così il Canada ha toccato i 49,6 gradi e la Russia artica i 40. Ci sono state centinaia di vittime e anche il pianeta, stando così le cose, non sta bene.
Non che gli allarmi siano mancati negli ultimi anni: ascoltati, certo, ma quanto recepiti?
Gli scienziati hanno spiegato più volte i rischi legati al cambiamento climatico, figlio delle emissioni di carbonio e di alcuni gas serra che dalla fine del XIX secolo, e ancor più nel XX e ancora oggi, l’uomo va producendo e immettendo in atmosfera.
I grandi della terra hanno dato una risposta attraverso accordi (Parigi 2015) e protocolli (Kyoto 1997). In alcuni casi si è trattato di un carosello di buone intenzioni o suppergiù. Kyoto è disatteso da Stati Uniti, Cina e India che sono pure i paesi che più inquinano il pianeta. L’Europa ne è invece la principale sostenitrice e proprio la prossima settimana (14 luglio) la Commissione europea ha in calendario la presentazione di un “pacchetto clima” con una decina di proposte di legge riguardanti emissioni, energie rinnovabili, introduzione della carbon tax alle frontiere e nuove regole per lo scambio delle quote di emissioni al suo interno. Un buon segno e un passo avanti ma in un contesto niente affatto buono.
A fine giugno l’Onu (Istituto per i cambiamenti climatici, IPCC) ha ridato l’allarme, rinnovando l’appello ad invertire la rotta per il bene e la sopravvivenza dell’umanità intera. Le previsioni sono state definite catastrofiche: un aumento del riscaldamento globale che superasse la soglia di 1,5-2 C°, fissata dagli accordi di Parigi, avrebbe impatti diventati irreversibili che, entro il 2050, porterebbero quasi mezzo miliardo di persone in più ad affrontare “ondate di caldo estremo”, 350 milioni a fare i conti con la scarsità d’acqua e altri 80 a soffrire la fame. Il destino che ci attende è quello di una crescente desertificazione e di fenomeni climatici sempre più estremi: fare gli struzzi sarebbe un egoismo inutile da parte della nostra generazione e quelle nuove ce le ricordano spesso.
Lo ha fatto Greta mettendo in moto i “Friday for future”. Lo sta facendo un meno noto Shamir, 24 anni, veneziano che studia a Milano, che ugualmente manifesta la sua paura per il futuro andando in piazza con un cartello. Lo rifarà questo fine settimana, accompagnato da ragazzi che condividono la sua preoccupazione climatica, in occasione della riunione del G20 che, il 9 e 10 luglio, nella nostra città lagunare vede i ministri delle finanze e i governatori delle Banche centrali dei paesi economicamente più potenti fare il punto sul clima e sulle risorse da destinare alla questione.
Va comunque ricordato che, se queste decisioni spettano alle nazioni e a chi le governa, ce ne sono altre possibili a ciascuno di noi. Le tavole imbandite a carne pesano infatti per un terzo sulle follie del clima, poiché gli allevamenti intensivi producono un terzo dei gas serra responsabili del surriscaldamento del pianeta.
E’ questo il tempo di scelte responsabili dato che gli effetti del riscaldamento globale non ci sono affatto estranei.
Per stare ai nostri territori, il primo monitoraggio degli impatti dei cambiamenti climatici in Italia, presentato nei giorni scorsi dal Sistema nazionale protezione ambiente (Snpa) ha certificato che anche i nostri mari (alto Adriatico, Ligure e Ionio settentrionale) soffrono per l’innalzamento delle temperature. Per gli incrementi continui del livello marino è già in difficoltà la laguna veneta: a Venezia il tasso di innalzamento del livello medio del mare, che si attestava sui 2,53 millimetri l’anno, è più che raddoppiato negli ultimi 26 anni (5,34 millimetri nel periodo 1993-2019). Anche l’agricoltura ne risente: evidenze di stress idrico per le colture, specie il mais, sono state riscontrate nei casi pilota di Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia. Non pensiamo dunque che a stare male sono e saranno sempre e solo gli altri.
Papa Francesco già sei anni fa nella sua profetica Laudato Sì aveva definito il clima “un bene comune”. Ma gli interessi economici in ballo non lo sono affatto e, fino a qui, hanno avuto la meglio.
Si ha un bel dire che il clima è un bene comune, la terra è la casa comune, che la politica cerca il bene comune, ma poi sono i profitti di pochi ad accendere e spegnere ciminiere e a imbandire tavole. E se le popolazioni stremate, anche da fame e siccità, migrano cercando nient’altro che la possibilità di vivere ecco che la casa comune si fa stretta e il clima comune cambia: condizionato per alcuni, soffocante fino alla morte per altri.

(*) direttrice de “Il Popolo” (Pordenone)

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