La storia di Evi Blaikie sopravvissuta all’Olocausto: “Abbiamo perso l’innocenza ed eravamo bambini”

“Dobbiamo ricordare perché potrebbe accadere ancora. Quello che è accaduto può succedere di nuovo, se ci distraiamo, se non siamo consapevoli della vita attorno a noi, se non siamo attenti alla politica, se non lottiamo per tutti e non solo per me stessa”, mi risponde decisa. Oso chiederle anche della sua fede, dopo un’esperienza così tragica. “Sono profondamente ebrea ma diciamo che io e Dio abbiamo un po' di questioni in sospeso”. Evi lo dice senza perdere il suo sorriso

(da New York) È piena di vita. Ciarliera, entusiasta. È piccola di statura, capelli bianchi e un un viso radioso. La incontro nel cuore di New York, all’Arnic center, un centro per immigrati di talento fondato da un ebreo ungherese, sfuggito alla persecuzione e che diventato miliardario ha deciso di offrire una possibilità a chi approda negli Stati Uniti da straniero. Evi Blaikie, ora in pensione offre il suo tempo libero per insegnare inglese conversando. È stata interprete e ha lavorato nel campo della moda. Ha scritto un libro, “Magda’s daughter – La figlia di Magda” e ha diretto un documentario. La sua voglia di vivere ti contagia in pochi minuti e non vedi quasi le inevitabili righe che la vita ha segnato sulla pelle e ancor più scavato nell’anima.

Evi Blaikie ha 82 anni ed è sopravvissuta all’Olocausto. Evi appartiene a quella schiera di bambini nascosti, gli Hidden Children, che sono riusciti a sopravvivere allo sterminio nazista perché nascosti in cantine e soffitte o adottati da famiglie e istituzioni cristiane con documenti falsi che gli hanno salvato la vita a scapito di lingua, identità, costumi e persino caratteristiche fisiche. Nata a Parigi da genitori ebrei ungheresi meno di un anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, dopo l’invasione tedesca nel 1940 Evi vide il padre, membro del partito comunista, passare alla clandestinità. La madre uscita per fare la spesa venne catturata in un rastrellamento e mandata in un campo di lavori forzati.

“A due anni e mezzo mi sono ritrovata senza genitori e con una zia che cogliendo la pericolosità della situazione decide di riportarmi a Budapest, dove viveva la famiglia di mia madre”, racconta. Non avendo un passaporto la zia usa i documenti falsi del figlio e la spaccia per un bambino per farle attraversare tutte le frontiere.

In Ungheria l’aspettano due zie e un cugino di 8 anni, Peter che il padre aveva scelto di non circoncidere per salvargli la vita. “Nel gennaio del 1944 avevo 5 anni e suonano alla porta. Aprono e ci si presenta davanti una donna magrissima e piccola. La zia chiama: ‘Magda”. Era mia madre. Era riuscita a fuggire dal campo austriaco e camminando per i boschi 3 settimane, guidata solo dalla luce del sole, era riuscita ad arrivare in Ungheria”. Evi ha presente ogni dettaglio di quel giorno. Come non dimentica quando a seguito del rastrellamento degli ebrei nel marzo del 1944, la madre decide per la fuga nella fattoria di un piccolo villaggio. La seguono Evi, Peter e un’amica sopravvissuta al campo di lavoro: tutti hanno documenti falsi preparati da un cristiano. Ancora una volta Evi si trova con un altro nome, con una madre che non deve considerare tale, ma chiamarla zia e con un cugino di identità musulmana e non più ebraica. “Se dimentichi il tuo nuovo nome, che non sei nata a gennaio ma a maggio e non ci chiami correttamente, moriremo tutti”.

La serietà delle parole materne è stampata indelebile nella mente di Evi. Al punto che quando incontrano un ufficiale che chiede i loro nomi e Peter si sbaglia, è Evi ad intervenire dicendo i nomi corretti e spiegando che l’errore era dovuto allo shock delle bombe in Budapest.

L’anno nella fattoria in Trans-Danubia è straziante non solo per la miseria, la paura, la sporcizia, il freddo che ha fatto rischiare ad Evi l’amputazione delle mani, ma anche per la vita di costante diffidenza verso tutto e tutti. “Abbiamo perso l’innocenza. Dovevamo mentire su tutto. E avevamo solo 5 e 10 anni”, ricorda Evi. La madre in maniera rocambolesca riesce a salvare da una fattoria-prigione due ragazzi ebrei, seppellendoli sotto il fieno dove lei e il cugino dormivano, mentre un drappello di soldati armati di baionette infilzavano tutte le balle al loro fianco. Con un coraggio indomito, Magda riesce a far curare dai nazisti Peter, spacciandolo per ariano figlio di un militare “che combatteva dalla parte giusta”. Anche la liberazione è una di quelle scene rimaste indelebili nella mente di Evi. La loro fattoria si trovava nella linea di fuoco degli alleati, dei nazisti e dei russi e nell’inverno ’44-’45 bombe e mortai cadevano costantemente. Il freddo li costringeva a stare a letto avvolti nelle coperte, perché i tedeschi avevano preso la legna. Quando i soldati russi sono arrivati di notte, avevano le candele decorate di una chiesa a fargli luce e non avevano nessuna lingua comune che potesse aiutare a spiegarsi. La mamma di Evi prova di tutto per farsi capire, anche l’ebraico ma senza speranza. Al mattino quando arriva uno degli ufficiali, Magda riprova e pronuncia delle parole in ebraico: l’uomo le risponde.

Quando dichiara l’identità ebraica il militare chiede una prova, ma Peter non era circonciso e niente sembra convincerlo fino a quando Magda comincia a recitare: Shemà Israele e l’ufficiale le risponde. Quel passo della Bibbia diventa il loro lasciapassare. Evi si commuove.

“Siamo tornati a Budapest in treno e grazie alla mamma abbiamo fatto salire 5 donne completamente rasate che erano fuggite dai campi di concentramento, nonostante la ribellione degli altri passeggeri. Tre sono morte prima di arrivare nella capitale”, continua prodiga di dettagli, inclusa la scoperta della morte di gran parte della famiglia. Quando nel gennaio 1946 tornano a Parigi come profughi indigenti scoprono che il padre di Evi è morto ad Auschwitz. La madre cerca un lavoro e Evi viene messa in orfanotrofio. Ne sperimenta vari, assieme a conventi e famiglie anche nel Regno Unito dove si trasferiscono sperando in un futuro diverso. Evi proprio in orfanotrofio viene accettata in una prestigiosa scuola superiore e da lì vince una borsa di studio per l’Università di Vienna, dove studia da interprete. Nel 1960 per lavoro si trasferisce in Venezuela e da lì negli Stati Uniti dove si sposa con un cattolico irlandese, anche se dopo 17 anni di matrimonio divorzia. “Ho scoperto che è il destino del 90% dei Bambini nascosti, divorziare. Abbiamo imparato a non fidarci e questa ferita vive con noi e ha condizionato le nostre relazioni e il nostro matrimonio”, mi spiega.

Proprio per esorcizzare il dolore e la tragedia che Evi scrive il libro e per mantenere viva la memoria di quanto lei e altri bambini hanno vissuto nel 2017 decide di contribuire alla sceneggiatura, ma poi vi si trova anche protagonista, del documentario “Remember us – Ricordateci”: un racconto corale di tutti questi bambini ora con i capelli bianchi che ripercorrono la loro infanzia di scampati. Evi si è lasciata filmare in quei luoghi, che è riuscita ad identificare grazie a ricerche e agli altri Hidden Children di New York. Perché questo titolo? “Dobbiamo ricordare perché potrebbe accadere ancora. Quello che è accaduto può succedere di nuovo, se ci distraiamo, se non siamo consapevoli della vita attorno a noi, se non siamo attenti alla politica, se non lottiamo per tutti e non solo per me stessa”, mi risponde decisa. Oso chiederle anche della sua fede, dopo un’esperienza così tragica. “Sono profondamente ebrea ma diciamo che io e Dio abbiamo un po’ di questioni in sospeso”. Evi lo dice senza perdere il suo sorriso.

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