Il virus razzismo

Quando nel 2009 Barack Obama divenne presidente degli Stati Uniti, il primo di origini afroamericane, si poteva ben sperare che la discriminazione razziale fosse stata superata in quel coagulo di etnie che compongono la nazione e la federazione americana. Ma evidentemente non era così: il virus del razzismo si rivela molto più duro a morire rispetto a qualsiasi altro virus che insidia l’umanità.

(Foto ANSA/SIR)

Quando nel 2009 Barack Obama divenne presidente degli Stati Uniti, il primo di origini afroamericane, si poteva ben sperare che la discriminazione razziale fosse stata superata in quel coagulo di etnie che compongono la nazione e la federazione americana. Ma evidentemente non era così: il virus del razzismo si rivela molto più duro a morire rispetto a qualsiasi altro virus che insidia l’umanità. L’esplosione di manifestazioni, più o meno violente, in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd per soffocamento da parte della polizia di Minneapolis nel Minnesota hanno rivelato quanto ci sia ancora da lavorare in quella parte del mondo, pur ritenuta così progredita, per affermare i principi elementari della convivenza umana. I funerali di George a Houston nel Texas si sono trasformati, a loro volta, in una sorta di manifestazione antirazzista con la passerella di politici democratici (compreso, da remoto, il candidato presidente Joe Biden) ad affermare la volontà di sconfiggere questo male endemico che continua a tormentare la vita quotidiana americana. Mentre dall’altra parte il presidente in carica Donald Trump cerca di minimizzare o addirittura di scaricare le colpe su altri (fino ad accusare l’anziano pacifista spintonato dalla polizia a Buffalo nello stato di New York di far parte degli estremisti di sinistra dell’Antifa), suprematisti bianchi compresi, che tuttavia hanno parecchi fiancheggiatori in alto loco. E’ risuonato giustamente l’appello ad abbandonare al contempo l’indifferenza e la sfiducia perché – diceva appunto Biden – “è giunto il tempo della giustizia razziale”. Un invito alla riconciliazione di tutte le comunità americane, la promessa di nuove leggi, di limiti alla polizia, di garanzie per gli afroamericani… E’ da sperare davvero che qualcosa cambi; ma la serpe del razzismo è nel cuore dell’uomo, che deve dunque liberarsi dal profondo. La storia è piena di discriminazioni, fondate appunto sull’assurda teoria delle razze, quando, in realtà, unica è la razza umana. Discriminazioni che diventano emarginazione, segregazione, eliminazione. Anche in Italia abbiamo vissuto una triste parentesi con la ignobile legge del ‘38 “Per la difesa della razza”, contro gli ebrei e non solo. In America il discrimine da sempre è soprattutto tra bianchi e neri. E noi, siamo davvero liberi da questo sentimento? Ricordo una forse ingenua ma eloquente canzone di Fausto Leali (1968), dove un “povero negro” chiede a un pittore di dipingere accanto alla Vergine un “angelo negro”: “Tutti i bimbi vanno in cielo/anche se son solo negri… Se vede bimbi negri/Iddio sorride a loro”. Ma discriminazioni fondate anche su piccole o grandi rivendicazioni di pretesa superiorità di una nazione sull’altra o di un gruppo sull’altro: lì è la radice di un sentimento che, vellicato imprudentemente da chi continua a dire “prima noi”, porta poi a tragiche conseguenze. “Non riesco a respirare” diceva Floyd (come già l’afroamericano Garner in situazioni simili nel 2014). Anche il “razzismo” dei nostri paesi e quartieri, o della porta accanto, va fermato in tempo prima che ci tolga il respiro

(*) direttore “Nuova Scintilla” (Chioggia)

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