Il colore della giustizia

Quanto è accaduto a Minneapolis il 25 maggio mostra l'eterna lotta tra le diversità figlie dell'uomo e non della natura. Il fatto ricalca un canovaccio che si ripete nel tempo: un poliziotto bianco ferma un uomo nero, nel corso dell'arresto qualcosa va storto e l'uomo nero muore. Un caso simile ad altri, ma questa volta tutti gli Stati Uniti si sono accesi in una rivolta che in una settimana ha portato a migliaia di arresti, nuove vittime, violenze e saccheggi

(Foto ANSA/SIR)

Quanto è accaduto a Minneapolis il 25 maggio mostra l’eterna lotta tra le diversità figlie dell’uomo e non della natura. Il fatto ricalca un canovaccio che si ripete nel tempo: un poliziotto bianco ferma un uomo nero, nel corso dell’arresto qualcosa va storto e l’uomo nero muore. Un caso simile ad altri, ma questa volta tutti gli Stati Uniti si sono accesi in una rivolta che in una settimana ha portato a migliaia di arresti, nuove vittime, violenze e saccheggi.
E’ dunque una vicenda che pesa e al contempo che concentra in sé una somma di contrasti e di cliché.
Il primo è quello della vittima: George Floyd, un afroamericano di 46 anni, un’esperienza di carcere alle spalle, una prima famiglia e una figlia di sei anni, una nuova fidanzata. Viene segnalato mentre cerca di fare acquisti in un supermercato usando soldi falsi. Morto per tentato acquisto di cibo.
Il secondo è quello del poliziotto: Derek Chauvin, 44 anni, bianco, agente che in 19 anni di servizio ha collezionato 18 denunce per comportamento violento; nel 2011 ha ricevuto un congedo temporaneo per una sparatoria.
Il terzo riguarda il sindaco di Minneapolis: Jacob Frey, 38 anni, bianco, avvocato, ebreo praticante, attivo nelle Ong. Suoi cavalli di battaglia: più case popolari e rapporti più distesi fra polizia e afroamericani. Il che inserisce questo episodio in un clima di costante tensione tra bianchi e neri.
Il quarto investe il capo della polizia: Medaria Arradondo, 55 anni, il primo nero a ricoprire questa carica a Minneapolis. Ha subito telefonato alla famiglia della vittima, ha licenziato gli agenti coinvolti pur non avendone la competenza giuridica, ha condannato le violenze divampate definendole, come il sindaco, figlie di “gruppi esterni” alla città.
Il quinto è il procuratore della contea di Hennepin (che comprende Minneapolis): Mike Freeman, 72 anni. Ha disposto l’arresto del poliziotto con una doppia imputazione: omicidio colposo e preterintenzionale. L’imputato ha tenuto per 9 minuti il ginocchio sul collo di Floyd mentre questo, a terra, ripeteva: “Non respiro”. La polizia aveva liquidato l’episodio come “incidente medico”.
La politica non è rimasta fuori dalla scena. Sono democratici il sindaco e il procuratore. Parole di sostegno sono arrivare da due democratici come la presidente della Camera Nancy Pelosi (nota per i rapporti non idilliaci col presidente Usa, Donald Trump) e dal governatore del Minnesota Tim Walz; entrambi concordi nel definire la morte di Floyd un omicidio. Sono repubblicani: il poliziotto destituito Chauvin (immortalato col cappellino rosso con la scritta “Make whites greats again” ovvero “Rendi i bianchi di nuovo grandi”) e il presidente Usa, Trump, che ha definito debole il sindaco Frey per non aver saputo fermare le proteste violente. Lo stesso Trump si è poi dovuto difendere dall’onda dei dimostranti, arrivati fino alla Casa Bianca e fermati con gas urticanti.
Il Paese – ferma restando la condanna verso ogni forma di protesta quando si fa vandalismo e violenza – vede in strada la somma e lo scontro tra due forze: una è quella dell’antirazzismo, l’altra è il suo contrario; una è quella del sogno di Martin Luther King che quasi 57 anni dopo è lontano dall’essere attuato, l’altra è quella del muro contro i latinos, ossia di una cultura secolare che vede i bianchi superiori e gli altri sottoposti (neri e latino americani). Per usare le parole dell’ex presidente Obama: “In America il razzismo è dolorosamente ed esasperatamente normale”.
Sulla vicenda, che si presta a diverse prospettive di sguardo, pesano ragioni socio-economiche, tensioni mai sopite ora esplose e pure una certa politica estremista. In America, come altrove, la parità di condizioni di vita si costruisce offrendo percorsi ugualmente accessibili. Scuola, sanità, opportunità lavorative e sociali sono i gradini della scala del successo e della rispettabilità. Dove questo non accade, il disagio rischia di tramutarsi in rabbia per le vite difficili fino allo sbando, quelle che abitano disordinate periferie e non linde casette con giardino.
E’ successo in un posto preciso, poteva accadere anche altrove: là dove la vita e la morte hanno un colore; là dove il colore della pelle può ancora dare una possibilità in più o molte possibilità in meno.
E allora, che l’America bruci per opposte visioni politiche o universali sogni di giustizia ci riguarda eccome: la radice di tutto è antica, oggi incendia un continente ma affonda nel cuore di ogni uomo. Simili episodi costringono a decidere da che parte stare: sulla nave che carica gli africani come braccia a buon mercato per i campi di cotone (per noi, oggi, pomodori) o in cammino in un sogno di fratellanza che aspetta da troppo tempo di provare ad esistere?

(*) direttore “Il Popolo” (Pordenone)

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