Amazzonia

Dopo il Sinodo. P. Lima (Manaus): “Nessuno ha messo in dubbio il segno profondissimo del celibato”

Al termine del Sinodo per l’Amazzonia il pensiero va all’attesa Esortazione papale e alla ricezione di quanto emerso nei dibattiti assembleari. Si parla della presenza e della formazione dei sacerdoti e della proposta che, in alcune località remote, prive dell’eucaristia per molti mesi all’anno, si possa arrivare all’ordinazione sacerdotale di diaconi sposati. Per contribuire alla riflessione il Sir ha intervistato uno dei massimi esperti sul tema dei sacerdoti e della loro formazione: padre Zenildo Lima, rettore del Seminario dell’Amazzonia di Manaus  

Concluso il Sinodo per l’Amazzonia, e in attesa dell’Esortazione di papa Francesco, già si pensa alla sua recezione. Una sfida che si giocherà soprattutto nell’immenso territorio amazzonico. Una delle attese maggiori riguarda la presenza e la formazione dei sacerdoti. L’Assemblea sinodale ha avanzato la proposta che in alcune località remote, prive dell’eucaristia per molti mesi all’anno, si possa arrivare all’ordinazione sacerdotale di diaconi sposati. Ma ha anche evidenziato l’urgenza di puntare su un clero indigeno. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi di seminari “indigeni”, qualcun altro di dare vita a un vero e proprio “rito amazzonico”.

Questioni importanti e complesse che non vanno usate come “bandierine”, ma su cui, piuttosto, ci è chiesto di iniziare un lungo lavoro pastorale e missionario. Il Sir ha intervistato uno dei massimi esperti sul tema dei sacerdoti e della loro formazione. Si tratta di padre Zenildo Lima, rettore del Seminario dell’Amazzonia di Manaus. Il suo è un punto di vista doppiamente importante. In primo luogo, ha partecipato da protagonista a tutta la fase preparatoria del Sinodo nell’Amazzonia brasiliana, e, come perito, all’Assemblea sinodale in Vaticano. In secondo luogo, dirige un Seminario, quello di Manaus, che già ora vede la presenza di vari indigeni che stanno svolgendo il cammino verso l’ordinazione presbiterale.

Qual è il suo bilancio di questa esperienza al Sinodo?

E’ necessario fare due passi indietro, per abbracciare non solo il Sinodo vissuto in Vaticano e in particolare il Documento finale, ma tutto il cammino a partire dal 2018. Io ho potuto partecipare a numerosi eventi. Devo dire che l’esperienza è stata sorprendente, soprattutto per l’ascolto di tanti interlocutori, a cominciare dai popoli indigeni. Il Documento preparatorio è stato criticato da qualcuno dal punto di vista del fondamento teologico, ma in realtà era molto rispondente alla prima fase di ascolto. Poi, al Sinodo abbiamo lavorato molto. L’iniziale bozza del Documento finale ha ricevuto molte critiche ed è stata in pratica riscritta, ricevendo alla fine molti consensi.

Ci descrive in sintesi il Seminario che dirige?

E’ il luogo che cura il processo di formazione dei candidati al sacerdozio di nove diocesi. Si va dall’arcidiocesi di Manaus, una metropoli di 2 milioni e 700 mila abitanti, alle comunità rivierasche del grande Rio delle Amazzoni, fino alle Chiese più lontane, in mezzo alla foresta. Ci sono attualmente 52 seminaristi. C’è chi viene dalle città, ma ci sono anche diversi indigeni, che provengono dalle diocesi di Roraima e São Gabriel da Cachoeira, appartenenti a varie etnie. Attualmente il percorso di sette anni, che fa seguito a un discernimento previo condotto nelle località di provenienza, si svolge quasi interamente a Manaus, i seminaristi tornano a casa solo per dei periodi di vacanza. Ma ci stiamo interrogando sull’opportunità di cambiare questo criterio, di legare di più i seminaristi alla loro Chiesa di provenienza.

In che modo, dunque, il Sinodo influenzerà la vita del Seminario?

Nel dare la priorità alla dimensione missionaria.

E’ una risonanza che si è ripetuta durante tutto il processo sinodale. Poi c’è la questione del dialogo tra culture della diversità tra coloro che frequentano il Seminario. La diversità è una ricchezza, non un problema, ma nelle nostre strutture non sempre si riesce a valorizzarla, abbiamo un modello fisso e rigido.

Al Sinodo qualcuno ha proposto dei Seminari per gli indigeni. Che ne pensa?

La domanda centrale non mi pare sia “con chi stanno gli indigeni”, ma “che struttura trovano”. In realtà, gli stessi indigeni appartengono a tante etnie e culture diverse. Non mi pare sia un problema che i seminaristi, indigeni e non, vivano insieme. Piuttosto è importante che il Seminario accolga e promuove le diverse culture. Noi cerchiamo di conoscere le Chiese di provenienza, è importante che il nuovo sacerdote si senta inculturato e coinvolto.

Come realizzare questo processo di inculturazione?

Noi cerchiamo di introdurre nel piano di studi alcuni elementi della cultura indigena, accanto naturalmente allo studio della teologia e della filosofia. Ma dobbiamo continuare a cercare categorie proprie e specifiche di questi popoli, dai quali abbiamo molto da imparare. Penso, per esempio, al cosiddetto bon vivir, il “vivere bene”, in un rapporto di armonia e non consumistico nei confronti della natura. Durante il percorso sinodale molti indigeni mi hanno stupito per il loro pensiero, la loro capacità di leggere la realtà.

Sullo sfondo c’è la questione dell’ammissione al sacerdozio di uomini sposati. Cosa ne pensa? E in che modo questa possibilità potrebbe cambiare i percorsi di discernimento vocazionale e di formazione nei seminari?

Come è noto, il Sinodo ha chiesto al Papa di approvare la possibilità dell’ordinazione dei cosiddetti “viri probati”. Vorrei sottolineare che non si tratta di una richiesta astratta. Il riferimento è a realtà che già esistono. Nelle comunità più lontane dell’Amazzonia, dove raramente i sacerdoti arrivano, ci sono già guide e punti di riferimento riconosciuti. Insomma, i possibili candidati già esistono, non avremo molto lavoro da fare, a questo proposito. Sul profilo di queste persone e sull’opportunità di questa scelta si possono avere delle difficoltà nei centri urbani, come la stessa Manaus. Nel contesto urbano il riferimento al sacerdote celibe è qualcosa di forte.

Non c’è il rischio che questa via d’accesso al sacerdozio vanifichi lo sforzo per avere un clero celibatario indigeno?

Non vedo due realtà in conflitto, ma due possibili strade. Partiamo da un dato di fatto: i sacerdoti indigeni sono pochissimi. Detto questo, è chiaro che un’animazione vocazionale anche tra gli indigeni è importante.

E nessuno al Sinodo ha messo in dubbio il segno profondissimo del celibato.

Tra gli indigeni, tuttavia, è importante anche il segno della leadership locale. Ed è centrale la questione del loro accesso all’eucaristia. Io credo che esista la possibilità di pensare a diversi modi di esercizio.

E’ stato ipotizzato anche un vero e proprio “Rito amazzonico”. E’ una possibilità?

All’inizio ci avevo pensato anch’io… tuttavia i riti non nascono in primo luogo dai Sinodi, ma partono dalla storia, da strutture, tradizioni precise. Personalmente ritengo che ci siano ancora dei passi da fare, non mi pare che i tempi siano maturi. Ma rimane in ogni caso una possibilità. Intanto, se non è il caso di cambiare il rito, possiamo sempre cambiare lo stile!