Protesta

“March for our lives”, i giovani americani dicono no alle armi: “Non finisce qui, ora siamo un movimento”

Non ci sono barriere tra palco e platea a Washington: la “Marcia per le nostre vite” ha solo dei portavoce elevati di qualche metro, ma sono queste migliaia di ragazzi, famiglie, anziani assiepati per ore sul viale che porta al Congresso che hanno storie da raccontare e scelte da far valere. “Il troppo è troppo” gridano, facendo eco alla giovane nipote di Martin Luther King che dal palco ricorda il sogno del nonno e vi aggiunge il suo: stop alla violenza delle armi da fuoco

(da Washington) 6 minuti e 20 secondi di interminabile silenzio davanti a una folla di mezzo milione di persone. Emma Gonzalez, una delle studenti di di Parkland, in Florida, la scuola dove lo scorso 14 febbraio un suo ex compagno fece fuoco con un fucile semiautomatico, ha voluto onorare così i suoi 17 amici “portati via dalla violenza”. Ci sono voluti solo “6 minuti e 20 secondi perché Carmen non mi prendesse più in giro per le lezioni di piano, o Oliver non giocasse più a baseball, o Alex non camminasse più assieme al fratello per andare a scuola, o Gina, o Scott…”. Li ha nominati tutti e poi un lunghissimo momento senza parole, dove solo un coro “Never again” si è levato con insistenza fino a ripiombare nel silenzio e nelle lacrime, mentre i ricordi di chi vittima, sopravvissuto o spettatore della Marcia fluivano senza sosta. Le stesse persone che si sono fermate immobili e le stesse che hanno gridato poco dopo il nome di Ricardo, il fratello di Edna Chavez ucciso in un sobborgo di Los Angeles prima che lei imparasse a leggere. E sempre la stessa folla ha intonato “Tanti auguri” per una delle vittime che in questo giorno avrebbe compiuto 18 anni e che mai più celebrerà con parenti ed amici.

Non ci sono barriere tra palco e platea a Washington:

la “Marcia per le nostre vite” ha solo dei portavoce elevati di qualche metro, ma sono queste migliaia di ragazzi, famiglie, anziani assiepati per ore sul viale che porta al Congresso che hanno storie da raccontare e scelte da far valere. “Il troppo è troppo” gridano, facendo eco alla giovane nipote di Martin Luther King che dal palco ricorda il sogno del nonno e vi aggiunge il suo: stop alla violenza delle armi da fuoco.

Ad applaudirla ci sono anche decine di veterani, alcuni in sedia a rotelle, altri con gambe artificiali che reggono con orgoglio uno striscione che li unisce nella protesta. “Noi siamo stati addestrati ad usare le armi da guerra e non è possibile che nel nostro Paese vi accedano persone senza preparazione e senza sufficiente equilibrio –  dice David, che indossa un gonnellino irlandese a sottolineare sulla divisa da marine le sue origini -. Noi non protestiamo contro il secondo emendamento o la National Rifle Association, ma chiediamo regole e chiediamo una sicurezza che non è dettata dall’armare tutti e dal creare una percezione di pericolo inesistente per far proliferare gli affari”.

Frate John è un francescano di Silver Spring. Dalla sua comunità sono venuti in 14, ma uno di loro, parroco in una chiesa locale ha organizzato ben 4 pullman. “Questo tema tocca la vita di tutti noi, dei piccoli e dei grandi. Nessuno può restare indifferente perché la pace vera parte anche da scelte decisive in questo campo”. Una rappresentanza di 300 studenti delle scuole cattoliche prevenienti da Ohio, Pennsylvania, Chicago, Bethesda si sono radunati nella chiesa di San Patrick per la messa e un momento di dialogo comune a cui si sono aggiunti anche studenti universitari. Pax Christi Usa ha invitato a partecipare alla marcia anche nel nome del beato Oscar Romero, che proprio il 24 marzo del 1980 era stato assassinato.

Mescolati tra la folla ci sono anche tanti insegnanti: i cartelli sono più discreti, tutti chiedono di non possedere un arma ma di usare al contrario le braccia e il cervello per sostenere questi giovani nel cammino della conoscenza. Una di loro, docente di chimica in una città vicino Washington, racconta che un suo cugino è stato tra i feriti della sparatoria alla Great Mills School ed è qui anche per lui. “Serve una riforma, eppure i nostri legislatori sembrano sordi. Il 23 marzo, forse perché vigilia della marcia, hanno bandito quel tragico componente che trasforma un fucile in semiautomatico, ma questo non basta”.

Una ragazzina con il cartello “Enough” è accompagnata dalla mamma. Ha 12 anni ma entrambe sono qui perché “questa marcia va fatta, perché è giusto e perché le scuole non possono essere un bersaglio in questo gioco di morte”.

Gli fanno eco un gruppo di studenti e di insegnanti ebrei che hanno scelto delle maglie arancio per dire di no alle armi. “Proteggete i nostri figli e non le pistole” si legge in decine di cartelli, stampati, disegnati, essenziali o fantasiosi. Alcuni hanno incollato decine di piccole scarpe a ricordare i 20 piccoli studenti di Sandy Hook, uccisi nel 2012: “Sono scarpe nuove che non potranno mai indossare”.

Sul palco ci sono gli studenti della Newton High School con un cartello con le firme dei compagni e poi c’è David Hook, uno degli studenti sopravvissuti alla strage in Florida che grida appassionatamente:

“Siamo una nuova generazione. Siamo il cambiamento e voteremo in novembre. Lì faremo la differenza. Non finisce qui, perché questo è ora un movimento”.

La serietà e la forza dei sì della platea sono un chiaro messaggio alla politica e al presidente Usa che ha lasciato al portavoce della Casa Bianca esprimere il suo plauso per i giovani americani che “esercitano il diritto alla libertà di espressione previsto dal primo emendamento. La sicurezza dei nostri ragazzi è tra le priorità del presidente”.

La National Rifle Association (la potente lobby delle armi) ha dichiarato che “le proteste non sono spontanee, ma organizzate da miliardari che odiano le armi e dalle élite di Hollywood che stanno manipolando e sfruttando i ragazzi per distruggere il Secondo Emendamento e privarci del nostro diritto di difendere noi stessi e i nostri cari”. Le piazze di Washington, di Denver, di Chicago, di san Francisco e di altre 800 città dicono altro e non si potrà ignorarle a lungo anche perché le elezioni di Midterm in novembre e il voto di questi nuovi cittadini potrebbero cambiare gli equilibri del Congresso.