Paolo Borsellino. Lucentini (giornalista): “Sapeva capire l’interlocutore, così ottenne risultati investigativi importanti”

L'autore di un libro sulla "verità negata" della strage di via d'Amelio ricorda il magistrato ucciso dalla mafia. E dedica un focus ai 57 giorni vissuti, dalla strage di Capaci all’attentato a Palermo, con aggiornamenti sui suoi movimenti, incontri e spunti di indagine che ricevette, interrogando collaboratori di giustizia o confrontandosi con altri inquirenti: "Nella vicenda giudiziaria che ha riguardato il depistaggio, l'eredità di Paolo Borsellino e il suo rigore morale non sono stati seguiti"

(Foto ANSA/SIR)

“Paolo Borsellino era un magistrato che credeva nella forza della verità. Non faceva il magistrato con una propria tesi. Raccoglieva le prove, trovava i riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e poi esercitava il suo ruolo di giudice”. Lo dice al Sir Umberto Lucentini, giornalista e autore del libro “Paolo Borsellino 1992… La verità negata” (ed. San Paolo), scritto con Lucia, Fiammetta e Manfredi Borsellino, figli di Paolo. Con il giudice ucciso dalla mafia, trent’anni fa, in via d’Amelio avrebbe dovuto scrivere un libro. Ma quell’evento non lo rese possibile. “Purtroppo nella vicenda giudiziaria che ha riguardato il depistaggio l’eredità di Paolo Borsellino e il suo rigore morale non sono stati seguiti – sottolinea -. Il tema dei collaboratori di giustizia con i loro racconti era apertissimo negli anni in cui faceva il magistrato. E ancora continua a rimanere aperto. Il suo esempio, il suo essere prima di tutto uomo pronto a raccogliere il pentimento, dal punto di vista giudiziario sicuramente, da parte di chi aveva avuto complicità con Cosa nostra e aveva deciso di collaborare con lo Stato, è stato l’aspetto principale che gli ha permesso di ottenere i successi investigativi che ha ottenuto”.

Capacità di dialogo con le persone – è il caso di Rita Atria – e con i testimoni di giustizia sono stati, dunque, fondamentali…
Sapeva mettersi dalla parte e nei panni del suo interlocutore. Quando Rita Atria – una ragazzina che aveva vissuto in un ambiente mafioso ma era per sua fortuna dotata di principi etici e morali particolari – ha deciso di raccontare tutto ciò che aveva appreso casualmente sulla mafia di Partanna, Paolo Borsellino è riuscito a compenetrarsi nello stato psicologico e mentale di questa ragazza. Saper entrare nella testa del suo interlocutore è stata la sua caratteristica principale, che gli ha consentito di ottenere risultati investigativi importanti.

Qual è stato il suo rapporto con Paolo Borsellino?
Ho avuto il privilegio di conoscerlo quando è diventato procuratore della Repubblica di Marsala. Avevo 24 anni, ero un giornalista alle prime esperienze e sono andato a Marsala perché dovevo scrivere per l’Europeo, un settimanale con cui collaboravo, un articolo in cui raccontasse che tipo di mafia avrebbe trovato lì, reduce dall’esperienza del Maxiprocesso alla mafia condotto a Palermo. Quel giorno, lui mi ha dato una parte importante del suo pomeriggio. Mi ha raccontato quell’esperienza e perché aveva scelto di andare a lavorare a Marsala, dove avrebbe potuto continuare a indagare sui rapporti tra Cosa nostra palermitana e Cosa nostra della zona di Castelvetrano, Mazara del Vallo e del Belice, che poi si sono rivelati snodi fondamentali dell’indagine su Cosa nostra. Lui mi ha fatto sentire… Enzo Biagi, perché mi ha dedicato una parte importante del suo pomeriggio, pur essendo io un giovane giornalista alle prime armi. Ho capito lì l’umanità che c’era dietro quest’uomo.

Nel libro sono contenuti aggiornamenti sui 57 giorni che separarono la strage di Capaci da quella di via d’Amelio. Cosa successe in quel periodo e come lo visse Paolo Borsellino?
Il 23 maggio 1992 Paolo Borsellino non ha perso soltanto il collega Giovanni Falcone con Francesca Morvillo e i poliziotti uccisi in quell’attentato. Ha perso anche un amico con il quale aveva condiviso anche gli anni importanti del Maxiprocesso a Palermo, e quelli successivi dell’ufficio istruzione. Difese pubblicamente, affrontando anche il rischio di essere sottoposto a un procedimento giudiziario da parte del Csm, Giovanni Falcone, che non aveva la possibilità a Palermo di indagare come dovuto, perché la Procura di Palermo, allora retta da Pietro Giammanco, non lo faceva lavorare. E fece lo stesso anche per la nomina a capo dell’ufficio istruzione, quando il Csm preferì a Falcone il giudice Meli. Non era una questione personale ma di metodo di indagini. Quindi, Paolo Borsellino il 23 maggio 1992 perse un collega ma anche un amico. Allora si impegnò fin dal primo momento successivo alla strage, sebbene devastato dal dolore per quanto successo, per cercare di capire chi e perché ha organizzato l’attentato a Falcone, sapendo perfettamente che il successivo obiettivo di Cosa nostra era diventato lui.

Dal processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, a Caltanissetta, non è emerso alcun colpevole. Trent’anni dopo, non si è arrivati alla verità… 
No, non c’è ancora e – dato il tanto tempo trascorso – chissà se ci sarà mai. Ma non per questo i figli di Borsellino si arrendono… La sentenza di Caltanissetta – e non posso che citare le parole di Fabio Trizzino, avvocato di parte civile di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino – ha una grande importanza perché viene riconosciuta la calunnia in quanto commessa dai poliziotti Bo e Mattei in concorso con i falsi pentiti. La calunnia, benché prescritta – purtroppo i processi celebrati dopo tanti anni portano a questo – è stata commessa in concorso con i falsi pentiti Scarantino e Andriotta, e ciò consolida lo scenario descritto nella sentenza del processo Borsellino quater. Il depistaggio c’è stato; è semplicemente il ritardo nell’esercizio della giurisdizione che ha determinato le relative conseguenze penali.

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