Nel carcere di Trani: la giustizia sia riconciliazione

Un cappellano carcerario di lungo corso, don Raffele Sarno, ci racconta i suoi 30 anni di esperienza con i detenuti. Le criticità dei penitenziari, l’importanza dei volontari e la necessità di una giustizia che sia davvero “riconciliativa”.

Foto #Unitineldono

Da trent’anni a servizio dei detenuti nell’arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie. Don Raffaele Sarno, 64 anni, podista per passione (nella galleria fotografica alcuni scatti del suo pellegrinaggio a Santiago de Compostela), sa bene che anche in carcere “è sempre una corsa”, per abbattere il muro della diffidenza e del pregiudizio.

Cappellano della Casa Circondariale Maschile di Trani dal ‘99, dall’agosto del 2021 ha iniziato il suo ministero anche nella Casa di Reclusione Femminile, su richiesta del vescovo Leonardo D’Ascenzo. «Negli anni – racconta don Raffaele – abbiamo dato vita ad una serie di progetti: dal sostegno scolastico per conseguire il diploma di maturità alle mostre di pittura, dal giornalino dei detenuti all’esperienza teatrale. Nella Parrocchia S. Cuore, dove sono stato trasferito, ho accolto detenuti in regime di semilibertà come volontari nella comunità, anche a servizio dei disabili. Dal 2009 con il progetto Terre Solidali abbiamo promosso l’agricoltura sociale sostenibile, puntando al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e di quanti sono sottoposti a misure alternative alla detenzione, fino al progetto del 2021 Un’altra terra».

Nel carcere di Trani la presenza di don Raffaele è segno di una Chiesa vicina agli emarginati.

«La mia prima preoccupazione – spiega – è portare la Parola di Cristo e ogni settimana cerco di garantire a tutte le sezioni la celebrazione eucaristica. Nel carcere femminile la celebrazione è quotidiana, con una piccola riflessione sulle letture del giorno. Le ragazze sono molto attente, spesso anche attraverso un dialogo aperto che spezza il mio monologo. E poi procuriamo indumenti a chi non ha il supporto della propria famiglia, medicinali particolari non garantiti dall’infermeria, occhiali per chi non ha fondi, sostegno economico per piccole spese a volte indispensabili. Spesso contattiamo le famiglie, angosciate per l’impossibilità di avere notizie sulla salute dei propri cari e cerchiamo di favorire le misure alternative, in particolar modo i permessi premio, grazie all’accoglienza che garantiamo in parrocchia, nei locali messi a disposizione dalla Diocesi. Sono tanti i detenuti che così hanno potuto incontrare i propri cari, magari i figli minori, in ambienti più adatti».

Dora, tunisina di 33 anni, è in Italia dall’età di 12 anni con una zia ed è finita in carcere a soli 15 anni in Sicilia, per colpa di un incontro sbagliato. Da 6 anni è stata trasferita nel Carcere di Trani dove lavora come cuoca. Convertita alla fede cristiana, ogni pomeriggio trascorre quattro ore nei locali Caritas della Parrocchia S. Cuore, collaborando alla gestione del guardaroba e alla distribuzione degli alimenti e facendo da interprete nella lingua araba, quando occorre. «Sono rinata – racconta – da quando sono a Trani: l’esperienza precedente è stata punitiva, ma ora ho contatti con la mia famiglia in Tunisia e con mio fratello in Inghilterra e vorrei trovare l’amore vero, anche se non ho superato del tutto le paure del passato. Sogno di riabbracciare mia madre, che non vedo da 21 anni. Bisogna sempre fare attenzione a chi si frequenta: il viaggio potrebbe essere senza ritorno».

«I drammi veri della realtà carceraria – conclude don Raffaele – restano il sovraffollamento e la carenza di organico. Nell’ascolto di queste persone emerge una sofferenza estrema ed è per questo che bisogna passare da una visione carcero-centrica a una mirata all’accompagnamento al di fuori degli istituti.

La “giustizia riconciliativa”, espressione squisitamente evangelica, non cristallizza il reo nella sua colpa, nella misura in cui egli è disposto ad abbracciare cammini onesti e trasparenti.

Perché tutto questo di realizzi sono indispensabili strutture che supportino la persona in questa fase così delicata e quanto la Chiesa possa essere protagonista è facile intuirlo. Anche le nostre comunità, però, devono abbandonare lo stigma per essere autenticamente solidali».

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