Spettacolo poco edificante

La recente elezione del Presidente della Repubblica, salutata dalle forze politiche – eccetto Fratelli d’Italia – con toni “entusiastici” impone un esercizio di memoria. Sergio Mattarella, che ora si appresta ad iniziare il suo secondo mandato, è lo stesso che all’indomani delle politiche della primavera del 2018 fu accusato di aver violato la Costituzione per aver posto il veto sul candidato al Ministero delle Finanze del Conte-1, il governo giallo-verde. Allora vi fu chi non si fece scrupolo di minacciare l’impeachment, vale a dire di porre sotto accusa Mattarella per essersi arrogato un potere – secondo i suoi detrattori – in aperta violazione dei dettami costituzionali, perché aveva messo becco sulla scelta della rosa dei ministri. Ovviamente non se ne fece nulla: nessun impeachment, perché nessuna violazione della Costituzione. E così Savona non divenne ministro del Mef, al suo posto fu scelto Tria e il governo giallo-verde, dopo aver stipulato il famoso “contratto per il cambiamento”, iniziò la sua breve storia, interrotta bruscamente nella “calda” estate del 2019. Certo, le persone intelligenti sanno cambiare idea, tuttavia lascia un po’ interdetti questo passare dalla proposta di impeachment allo spellarsi le mani per la rielezione di Mattarella.

foto SIR/Marco Calvarese

La recente elezione del Presidente della Repubblica, salutata dalle forze politiche – eccetto Fratelli d’Italia – con toni “entusiastici” impone un esercizio di memoria. Sergio Mattarella, che ora si appresta ad iniziare il suo secondo mandato, è lo stesso che all’indomani delle politiche della primavera del 2018 fu accusato di aver violato la Costituzione per aver posto il veto sul candidato al Ministero delle Finanze del Conte-1, il governo giallo-verde. Allora vi fu chi non si fece scrupolo di minacciare l’impeachment, vale a dire di porre sotto accusa Mattarella per essersi arrogato un potere – secondo i suoi detrattori – in aperta violazione dei dettami costituzionali, perché aveva messo becco sulla scelta della rosa dei ministri. Ovviamente non se ne fece nulla: nessun impeachment, perché nessuna violazione della Costituzione. E così Savona non divenne ministro del Mef, al suo posto fu scelto Tria e il governo giallo-verde, dopo aver stipulato il famoso “contratto per il cambiamento”, iniziò la sua breve storia, interrotta bruscamente nella “calda” estate del 2019. Certo, le persone intelligenti sanno cambiare idea, tuttavia lascia un po’ interdetti questo passare dalla proposta di impeachment allo spellarsi le mani per la rielezione di Mattarella.
A dirla tutta, lo “spettacolo” cui abbiamo assistito la settimana scorsa non è stato particolarmente edificante anche per altri motivi. Lo hanno riconosciuto gli stessi leader di partito. Non mettiamo in dubbio il valore di Mattarella, come uomo e come politico, ma è parso evidente che il suo nome si è imposto perché la politica non è stata capace di accordarsi su un’altra figura. È la seconda volta che in questa legislatura si palesa, in maniera eclatante, l’incapacità dei politici di arrivare ad una scelta condivisa per il bene del Paese. Le “castagne dal fuoco” hanno dovuto toglierle altri: prima Draghi, un “tecnico” o, se non vogliamo utilizzare questo termine, una figura extraparlamentare cui è stato chiesto (da Mattarella) di creare un governo di “unità nazionale” per uscire dall’impasse creatasi dopo il tracollo del Conte-2, il governo giallo-rosso; e poi ancora Mattarella, al quale, sebbene da mesi avesse manifestato, in tutti i modi, la non opportunità di una sua rielezione, è stato domandato di accettare un nuovo settennato.
Va detto, per amor del vero, che le forze politiche hanno una scusante che attenua – ma non assolve – le loro responsabilità. Le elezioni del 2018 hanno portato in Parlamento sostanzialmente tre “poli” tra loro alternativi (per non dire inconciliabili) e ciascuno senza i numeri sufficienti per governare da solo: il centro-destra, il centro-sinistra e il movimento 5 stelle. Il governo giallo-verde e poi quello giallo-rosso erano evidentemente due soluzioni di compromesso “estreme” in un equilibrio instabile, destinato a saltare alla prima turbolenza. Come poi è stato. Questo è il peccato originale di questa legislatura che presumibilmente – al netto di qualche colpo di scena – andrà a chiudersi con la sua fine naturale nel 2023. Un peccato originale che chiede, ancora una volta, una verifica e possibilmente una riforma del sistema elettorale per garantire al Paese una migliore governabilità e quella stabilità di cui, dopo due anni di pandemia che ci hanno duramente messi alla prova, abbiamo urgente bisogno.

(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)

 

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