Una ferita da ricucire. Il bene comune e le pistole in tasca

Il colpo di pistola che a Voghera ha ucciso Youns El Boussetaoui in una calda sera di luglio, davanti al leggendario bar “Ligure”, ha messo in ginocchio una città intera. E di fronte a un fatto di cronaca nera così tanto grave la mia prima reazione è affidarmi alla preghiera. Prima di tutto per la vittima, un uomo che ha un nome e un cognome e sarebbe ora di smettere di continuare a chiamarlo “il marocchino”, come se morire ammazzato da straniero, da ubriacone, da disturbatore della quie- te pubblica, fosse morire un po’ meno. E poi una preghiera per chi ha sparato, l’ex assessore comunale Massimo Adriatici, che sta vivendo un dramma senza confini.

Il colpo di pistola che a Voghera ha ucciso Youns El Boussetaoui in una calda sera di luglio, davanti al leggendario bar “Ligure”, ha messo in ginocchio una città intera. E di fronte a un fatto di cronaca nera così tanto grave la mia prima reazione è affidarmi alla preghiera. Prima di tutto per la vittima, un uomo che ha un nome e un cognome e sarebbe ora di smettere di continuare a chiamarlo “il marocchino”, come se morire ammazzato da straniero, da ubriacone, da disturbatore della quie- te pubblica, fosse morire un po’ meno. E poi una preghiera per chi ha sparato, l’ex assessore comunale Massimo Adriatici, che sta vivendo un dramma senza confini.
Voghera porta i segni di una ferita profonda che tutti noi siamo chiamati a curare e a ricucire.
L’ha detto anche la sindaca Paola Garlaschelli nel suo video messaggio pubblico. L’hanno detto, benissimo, i parroci mons. Marco Daniele e don Cristiano Orezzi. L’hanno ripetuto le opposizioni alla Giunta di Centrodestra.
Ma quel che mi addolora e mi lascia attonito è constatare come in questa città, che conta su un tessuto sociale di uomini e donne per bene, che offre esempi di volontariato e di impegno da parte delle Parrocchie, della Caritas, di numerose associazioni, l’opinione pubblica sia divisa tra chi accusa e chi difende. Alcuni politici sono stati i primi a fornire un pessimo esempio inscenando un processo mediatico del quale avrei fatto volentieri a meno perché i processi si svolgono soltanto nelle aule dei tribunali.
Sui social, come in un’arena, si stanno combattendo opposte fazioni e tifoserie dando sfo-go alla protervia e all’odio.
Se giri per le vie del centro e della periferia ascolti commenti che ti lasciano sconcertato: «uno in meno», «gli stranieri tornino da dove sono venuti», «giustizia è fatta». Se poi la Chiesa esprime il proprio pensiero e invita a non fare inutile clamore e fa appello all’impegno delle istituzioni, rischia di essere tacciata da quella schiera di qualunquisti a ore che inquinano il dibattito: «gli stranieri se li portino in casa loro».
Ma vogliamo dire, una volta per tutte, che siamo in uno Stato di diritto; che la forza deve essere esercitata dallo Stato, dalla polizia e dai carabinieri e non dai singoli cittadini?
Qualcosa non ha funzionato. La vittima non era certo uno stinco di santo: aveva problemi con la Giustizia e di natura psicologica. Quel martedì sera Youns non doveva essere lì ma doveva già essere stato preso in carico da chi lo potesse aiutare.
Stare dentro questo nostro tempo significa coltivare relazioni nuove, allenare il silenzio, praticare l’ascolto e domandarsi: che cosa posso fare io per l’altro? Posso sperare in una comunità capace di integrazione, di dialogo, di offerte formative e di risposte al disagio sociale o posso girare con una pistola in tasca?
Stiamo commettendo un grosso errore (e la pandemia in questo non ci ha aiutato): pensarci come individui e non più come persone, frantumando i rapporti sociali. Il Papa ci indica due strade per invertire la rotta: la benevolenza e la solidarietà.
Dobbiamo servire le persone non le ideologie.

(*) direttore “Il Popolo” (Tortona)

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