Due luci nel buio

Passano i giorni e non si spengono i riflettori sul caso Saman. Né potrebbe essere diversamente: una famiglia intera ha cospirato compatta contro una ragazzina diciottenne per quel suo essere diversa da come loro volevano che fosse. Le sue ultime tracce il 30 aprile quando, telefonando al fidanzato, aveva confessato di aver udito una conversazione dei suoi genitori della quale resta incancellabile una parola: “Uccidiamola”. Lei stessa aveva creato l’occasione funesta, rincasando dopo oltre cinque mesi di allontanamento col solo obiettivo di recuperare i documenti.

(Foto: ANSA/SIR)

Passano i giorni e non si spengono i riflettori sul caso Saman. Né potrebbe essere diversamente: una famiglia intera ha cospirato compatta contro una ragazzina diciottenne per quel suo essere diversa da come loro volevano che fosse.
Le sue ultime tracce il 30 aprile quando, telefonando al fidanzato, aveva confessato di aver udito una conversazione dei suoi genitori della quale resta incancellabile una parola: “Uccidiamola”. Lei stessa aveva creato l’occasione funesta, rincasando dopo oltre cinque mesi di allontanamento col solo obiettivo di recuperare i documenti.
In questa storia di buio sotto ogni punto di vista – buio della ragione, buio della cultura, ma trattandosi di genitori verrebbe da dire anche profondo buio del cuore – la luce, se la si vuol cercare, viene da due fronti.
Uno è quello della parte lesa: di Saman che, ancora minorenne aveva trovato la forza di denunciare una situazione di pesantissime angherie. Si è letto che il padre la puniva facendola dormire sul marciapiede di casa e che le era stato impedito di proseguire gli studi. Di lei si vedono due versioni: una velata di nero e l’altra con i capelli sciolti e la fascia scarlatta come il rossetto. La differenza non sta nel velo, ma nei suoi occhi: tanto spalancati poi, quanto piccoli e quasi spenti prima. Lei che, scegliendosi un fidanzato da sola, non aveva rinnegato la sua terra e le sue radici tanto che il suo cuore aveva trovato rispondenza in quello di un ragazzo pakistano. Lei che, così facendo, aveva però disobbedito all’antica legge dei matrimoni combinati, diffusa in una parte lontana del mondo ma non esclusa al nostro in tempi passati, quando la famiglia veniva prima della singola persona.
Sulle altrui culture e religioni è alquanto arduo dire quando troppe cose ci sono lontane e sconosciute. Ma sulla salvaguardia del bene della vita le culture e le religioni del mondo dovrebbero convergere. Troppe pagine hanno scritto che non è così.
Lo ha sintetizzato don Gianfranco Goccini, parroco di Novellara, dichiarando: “Sono solidale con Saman perché è la vittima dell’odio e non mi interessa quale sia la sua religione, quali fossero i suoi ideali” (Avvenire, venerdì 11 giugno). Piuttosto punta il dito contro l’obbligo scolastico non rispettato: “Offrire i corsi di italiano alle famiglie immigrate non basta, qui c’è un problema culturale enorme”. Lui, per anni responsabile della pastorale giovanile, ha detto di aver ritrovato negli occhi di Saman gli stessi occhi delle foto social dei suoi ragazzi. Quei ragazzi che sono spesso più avanti, e si sentono meno diversi tra loro, degli adulti.
Si è letto che nel paese di Novellara nessuno conosceva Saman: mai fuori, in giro, come di solito fanno i giovani della sua età. Lo stesso i genitori: operosi e silenziosi, lavoro sui campi e casa. Quella casa che per loro era una continuazione di Pakistan, perché mai fuori significa vivere isolati, senza socialità, senza scambi: nessuno da incrociare, salutare, nessuno a cui sorridere, nessuno da cui e con cui imparare un altro modo di vivere e condividere qualcosa del proprio.
Elemento dirompente sembrerebbe essere stato lo zio Danish, sospettato della sparizione della giovane: quattro mesi dopo il suo arrivo Saman ha cercato aiuto dai servizi sociali e nel novembre 2020 era stata allontanata d’urgenza e collocata in un’unità abitativa.
In quella bolla isolata di campi e di serre la Saman che nessuno vedeva in giro ha tuttavia saputo come muoversi e chiedere aiuto. La sua luce sapeva infrangere il buio che la circondava e mirava solo a farla sposare contro la sua volontà un cugino più grande in Pakistan. La famiglia clan al di sopra della persona.
Gli inquirenti – oltre a cercare il suo corpo il cui destino è scolpito in modo atroce dalle parole dello zio latitante “Abbiamo fatto un buon lavoro” – devono chiarire come sia potuto accadere che Saman, pur con la libertà di una maggiorenne, sia rincasata da sola. Ombre che si aggiungono a una storia già tetra.
Infine, la seconda luce che non si può non vedere è quella del fratello minore. Anche lui ha saputo andare oltre il volere dei familiari e denunciare come e chi avrebbe spento la vita della sorella.
Per questo Saman e suo fratello sono due luci nel buio, due cittadini di un mondo diverso da quello della loro famiglia. Due punti luminosi di fronte alla nera brutalità della violenza subita e vista: ma tanto più fitta è la notte, tanto più anche una piccola luce risplende. E quella che viene dagli occhi spalancati e belli di Saman acceca, come la verità che si cerca.

(*) direttrice de “Il Popolo” (Pordenone)

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