Quel 30 per cento di No

Che il 30 per cento degli italiani abbia detto “No” al taglio lineare dei parlamentari, e quindi della politica, può avere due significati. Da un lato c’è più d’uno che ha cercato ragioni più profonde circa la rappresentanza e il suo costo a carico del bilancio statale. Dall’altro, lo scollamento tra partiti e cittadini

Una lettura in controtendenza. È quella che vorrei cercare di fornire sull’esito del quesito referendario costituzionale di domenica e lunedì scorsi (vedi servizio a pagina 17 dell’edizione cartacea di giovedì 24 settembre).
Che il 30 per cento degli italiani abbia detto “No” al taglio lineare dei parlamentari, e quindi della politica, può avere due significati.
Da un lato c’è più d’uno che ha cercato ragioni più profonde circa la rappresentanza e il suo costo a carico del bilancio statale. Dall’altro, lo scollamento tra partiti e cittadini.
Su questo secondo punto mi spiego meglio. La stragrande maggioranza delle forze in Parlamento aveva votato a favore e poi si era espressa per il “Sì” al referendum. Ma nessuna delle stesse forze politiche ha saputo sintonizzarsi con quel 30 per cento che ha perso alle elezioni, ma rappresenta pur sempre una fetta non trascurabile dell’elettorato con cui occorrerà fare i conti, prima o poi.
Se per il quesito sulla riduzione del numero dei parlamentari il movimento 5 stelle può cantare vittoria, non lo può fare di certo per i voti ottenuti nella tornata amministrativa.
La formazione fondata da Beppe Grillo intercetta consensi quando contesta. Li perde quando viene chiamata ad amministrare.
Non è andata così per Zaia in Veneto e De Luca in Campania. I loro successi in termini di voti dicono di una gestione a volte personalistica, ma di certo capace di andare incontro ai bisogni della gente. Ha giocato a loro favore aver gestito l’emergenza sanitaria con piglio deciso e occhi attenti al territorio e a quel che accadeva nel Paese e nel mondo.
Esce più ridimensionato Matteo Salvini che dopo la mancata conquista dell’Emilia-Romagna registra un’altra battuta d’arresto in Toscana. Anche le alleanze interne al centro destra sembrano da rivedere, con Giorgia Meloni di Fdi che sale posizioni e pretenderà maggiore spazio. All’interno della Lega, nonostante le rassicurazioni di prassi, il vincitore Zaia potrebbe insidiare il proprio leader che in particolare al sud, ma anche in Veneto, non ha ottenuto i successi sperati.
L’esecutivo guidato da Giuseppe Conte esce se non più forte, di sicuro meno debole, dalla domenica di elezioni. Non era un voto politico, lo si è detto da più parti, ma avrà di sicuro una certa valenza.
Il Pd è andato meno peggio rispetto ai pronostici, anche se la sconfitta nelle Marche brucerà non poco. L’alleato di governo sta peggio e a volte in politica ci si consola così, anche se i cittadini ora attendono altre riforme per non lasciare monca quella confermata pochi giorni fa.

(*) direttore del “Corriere Cesenate” (Cesena)

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