Soddisfatti ma non troppo

Dopo il lungo periodo di isolamento, ci stiamo riappropriando, gradualmente, di quelle libertà individuali e collettive alle quali abbiamo dovuto rinunciare fin dal 9 marzo scorso, quando il governo, con il consenso di tutte le componenti politiche e sociali, impose il lockdown, una sorta di quarantena nazionale, con la sospensione della maggior parte delle attività sociali.

(Foto ANSA/SIR)

Dopo il lungo periodo di isolamento, ci stiamo riappropriando, gradualmente, di quelle libertà individuali e collettive alle quali abbiamo dovuto rinunciare fin dal 9 marzo scorso, quando il governo, con il consenso di tutte le componenti politiche e sociali, impose il lockdown, una sorta di quarantena nazionale, con la sospensione della maggior parte delle attività sociali.Da quel 9 marzo partì l’obbligo per tutta la popolazione di rimanere in casa, con possibilità di muoversi, nella stessa città, soltanto per motivi di stretta necessità. Misure restrittive che, è bene sottolinearlo,come cittadini, abbiamo accolto e vissuto con encomiabile senso di responsabilità.Lo stesso atteggiamento che, si auspica, possa orientare i nostri futuri comportamenti. Gli oltre 32.000 decessi e i 230 mila contagiati, è bene ricordarlo, non consentono alcun cedimento! Se, come abbiamo auspicato, vogliamo che “tutto andrà bene”, la risposta dobbiamo cercarla, prima di tutto,in noi stessi. Lo scorso 18 maggio, quando è entrato in vigore il decreto che ha dato il via libera, con limitazioni, alla riapertura di tante attività – bar, ristoranti, parrucchieri, centri estetici, palestre, e piscine- e che ha previsto, altresì, la ripresa delle funzioni liturgiche,ci è sembrato di “toccare il cielo con un dito”. Sapere, in più, di poterci muovere, senza limitazioni, nell’ambito della stessa regione, ha costituito un ulteriore motivo di euforia – a volte eccessiva e incauta – che dovrebbe raggiungere il suo culmine il prossimo 3 giugno, quando ci si potrà spostare anche fuori dalla regione di appartenenza. La sensazione immediata è stata quella di una generale contentezza per il traguardo raggiunto, trasformatasi, subito dopo, in una diffusa sofferenza per le tante problematiche legate alla ripresa, prima fra tutte, la grave situazione economica e sociale in cui versa il Paese. Abbiamo compreso di essere sì, soddisfatti,ma non troppo. Spenta l’euforia iniziale, per molti si sono accese le luci della povertà e quelle delle difficoltà della ripresa stessa. Tanti padri di famiglia- solo per fare qualche esempio-non hanno potuto svolgere,in questi mesi, neppure quei lavoretti che consentivano loro di sopravvivere. Per costoro, che risultano sconosciuti a qualsiasi anagrafe sociale e che, perciò, sono sprovvisti anche di quel dato magico, l’ISE, non rimane che la carità e il reddito d’emergenza, approvato nei giorni scorsi dal governo. Purché, s’intende,questo arrivi presto!A loro volta, tanti lavoratori autonomi, dopo tre mesi di inattività, minacciano di non volere riaprire, se non riusciranno ad ottenere quel minimo di contante per pagare stipendi, affitti e bollette. Ma ci sono operatori che, pur avendo i mezzi per la ripartenza, dichiarano di non trovarne la convenienza – in particolare ristoratori, albergatori e gestori di lidi balneari – a motivo delle regole di distanziamento – ritenute da loro eccessive-fissate dalle autorità,che limiterebbero gli spazi necessari per una proficua attività. Stando così le cose, questi imprenditori e altri ancora, si troverebbero di fronte a una sorta di “libertà condizionata”. Ma su tutti, il motivo più serio di lamentela è rappresentato dai notevoli ritardi con cui si concretizzano le misure di sostegno approvate dal governo. Con il rischio reale che, tardando gli aiuti dello Stato, esploda la rabbia sociale e si infiltri, nelle situazioni di bisogno estremo, la criminalità. Come può risollevarsi il Paese, ci si chiede, se, nonostante i diversi decreti approvati dal governo – “cura Italia,liquidità, rilancio”- la produzione non riparte per mancanza di mezzi finanziari? A che serve che lo Stato approvi misure per oltre cinquanta miliardi,si indebiti oltre ogni limite- dal 135% al 155% del PIL- se i benefici non arrivano o giungono fuori tempo, quando già le imprese hanno dichiarato la resa? Se uno dei motivi di tanto malcontento è stato individuato nelle lungaggini burocratiche, che si aspetta per intervenire? Se non si vogliono vanificare gli sforzi, le perdite umane subite e i risultati fin qui ottenuti, si stringa un patto fra tutte le forze politiche e sociali e si trasformi questa emergenza in una grande opportunità di rinnovamento del Paese.

(*) direttore “La Vita diocesana” (Noto)

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