Se l’Italia si dimentica dei suoi figli

Molte cose le capiremo con il tempo, quando avremo rielaborato il trauma da Covid-19. Allora intuiremo meglio verso quale modello di società stiamo andando, cosa avremo lasciato dell'era "precovidica" e cosa avremo imparato da questa pandemia. Con il tempo ci guarderemo allo specchio e comprenderemo cosa è cambiato in noi

Molte cose le capiremo con il tempo, quando avremo rielaborato il trauma da Covid-19. Allora intuiremo meglio verso quale modello di società stiamo andando, cosa avremo lasciato dell’era “precovidica” e cosa avremo imparato da questa pandemia. Con il tempo ci guarderemo allo specchio e comprenderemo cosa è cambiato in noi.
Oggi, nel frattempo, possiamo già capire gli aspetti in cui non è cambiato. Ne sottolineiamo uno che ci sta particolarmente a cuore e sul quale abbiamo già scritto più volte. |L’Italia non è amica dei bambini, anzi li ha proprio dimenticati.|
Ce lo sta confermando la Fase 2 che si sta sviluppando in tutte le sue molteplici declinazioni. Giustamente il ciclo produttivo è stato centrale nelle scelte per la riapertura: l’economia di un Paese non può rimanere bloccata a lungo senza registrare il rischio concreto e devastante di non ripartire. Quindi bene tutte le decisioni assunte in questa direzione si a livello centrale che regionale.
La “ri-partenza” ha riguardato, finalmente, anche le nostre parrocchie, ha toccato l’importante mondo della cultura e quanti fanno sport.
Nulla o quasi, invece, per i bambini. |Come organizzarne il tempo e come preoccuparsi della loro crescita sono questioni che sembrano dover riguardare esclusivamente i genitori|, i quali, nel frattempo, hanno ripreso a lavorare o tornando in azienda o esercitandosi nello smart working che tanto oggi va di moda. I bambini, insomma, continuano a non essere considerati dalla politica: una costante in tutto il lockdown e oggi è una conferma.
Viene da pensare che il motivo sia che oltre a essere pochi, non sono abbastanza grandi per protestare e neanche per votare e quindi non contano, sono ininfluenti per la politica. |I figli sono considerati (da tempo) un bene privato, non un bene comune, un investimento per tutto il Paese|. Eppure è lì che ci giochiamo il futuro del Paese. E’ una questione annosa sulla quale da tempo si dibatte e si scrive e che trova nella glaciazione demografica la sua concretizzazione più preoccupante.
Questa pandemia ha rappresentato una scossa sotto tanti profili e qualcosa sembra che nella coscienza collettiva si sia mosso. Questo non vale certo per tutti, ma certamente questi mesi di crisi hanno messo in discussione in tanti molti riferimenti che sembravano solidissimi. Ebbene sul versante dell’attenzione ai più giovani, se dobbiamo prendere come indicatori le scelte della politica, la scossa non c’è proprio stata. Le nuove generazioni sono le grandi assenti anche della “ri-partenza”. Rispetto al futuro si parla ancora di baby-sitter, congedo parentale e poco altro, con la grande incognita della scuola che ancora non si sa come sarà.
Nel ripensare il prossimo futuro che avrà caratteristiche certo diverse da come eravamo abituati a intendere la vita tre mesi fa, le giovani generazioni continuano a non esserci tra i criteri che ispirano le scelte generali. |Il problema è che assumere le giovani generazioni come criterio per le scelte di governo implica rivedere davvero e seriamente l’organizzazione dei servizi e del lavoro|, pensare sostegni degni di questo nome alle famiglie. Complicato ma non impossibile. Certo, ci vorrebbe una politica che sappia alzare lo sguardo e scrutare l’orizzonte, tra venti, trent’anni.
E invece l’attenzione resta concentrata al qui e ora, con gli occhi puntati al massimo alle prossime elezioni. E così non si ha il coraggio di una visione degna di questo nome e ci sfugge il futuro. E intanto i figli crescono in un Paese in cui rischiano sempre più di sentirsi estranei.

(*) direttore “La Voce dei Berici” (Vicenza)

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