Stringiamoci a coorte

E' il momento dell'unità coesa e compatta. Questo ci è chiesto dal Capo dello Stato, dal governo, dagli esperti che studiano l'evolversi dell'epidemia di Coronavirus che dilaga in Italia impossessandosi di persone, ospedali, regioni. Ma anche dei mezzi di informazione - dalla tv ai giornali al web - come dei nostri pensieri.

(Foto: Presidenza del Consiglio dei ministri)

E’ il momento dell’unità coesa e compatta. Questo ci è chiesto dal Capo dello Stato, dal governo, dagli esperti che studiano l’evolversi dell’epidemia di Coronavirus che dilaga in Italia impossessandosi di persone, ospedali, regioni. Ma anche dei mezzi di informazione – dalla tv ai giornali al web – come dei nostri pensieri.

Inutile negarlo: ne siamo già virtualmente contagiati perché non siamo quelli di due settimane fa. Ciascuno ha avuto un appuntamento saltato, un altro rinviato sine die. Tutti siamo limitati e la parte veneta della Diocesi vive restrizioni ancora maggiori a partire dagli spostamenti.

Sono chiusi per tutti i teatri e gli stadi, sospesi gli allenamenti e i ritrovi: niente assembramenti. Le scuole sono chiuse dal 26 febbraio e lo saranno fino al 3 aprile; la Cei ha ampliato il divieto di celebrazioni pubbliche all’Italia intera.

Come è nuovo tutto questo per noi. Come è nuovo misurarci con questo pensiero fisso che presiede ad ogni uscita di casa.

Stiamo vivendo, come mai prima, un tempo sospeso e appeso alla speranza di fermare il contagio. Dobbiamo spenderlo bene: l’obiettivo è riuscirci. Farcela dipende da noi e nessuno, proprio nessuno, è esente o esonerato dalla responsabilità dei propri gesti, delle proprie scelte e relative conseguenze.

E’ il tempo del corretto comportamento: a partire da noi. Per salvaguardare noi stessi e, insieme, la nostra famiglia (nessuno vuole rientrare contagiato né farsi donatore di virus), la nostra comunità: quella piccola dei conoscenti e del paese, quella grande ed ugualmente nostra che è la nazione.

Troppe cose sono in ballo: la salute dei singoli e di tutti, il sistema sanitario, che rischia il collasso, il sistema economico di cui molte parti temono uno stallo mortifero. “Persino il commercio era morto di peste” scrisse Camus nel romanzo “La peste”.

Siamo tutti esposti, ma anche adeguatamente informati su ciò che dobbiamo fare.

Mai come ora acquista un senso concreto la frase che Giuseppe Cesare Abba passò alla storia, attribuendola a Giuseppe Garibaldi. Di fronte allo sconforto di Nino Bixio che vedeva i borbonici avere la meglio sui mille a Calatafimi (15 maggio 1860), l’eroe dei due mondi iniettò nuove energie alla truppa proclamando: “Qui si fa l’Italia o si muore”. Facciamola nostra nel suo senso esteso di mantenere tutti una condotta decisa, un impegno fermo.

Questo dobbiamo fare: mani pulite, distanza oltre il metro (chiediamola e imponiamola se non viene rispettata), mascherina se raffreddati. Il virus cammina attraverso noi, siamone consapevoli e agiamo di conseguenza. Le regole sono semplici ma la loro negligenza comporta un rischio che non ci possiamo permettere.

Ci aspettano settimane di una vita attenta e ritirata. Non viviamola come un’imposizione, piuttosto come decisa volontà di collaborazione allo sforzo comune. Il nemico è invisibile ma visibilissimo è il suo passaggio. Stiamo dunque in casa, usciamo solo quando necessario, rispettando le regole di distanza e igiene. Amiamo i nostri anziani e tuteliamoli anche da noi, potenziali portatori di contagio. Siamo tutti in prima linea contro il virus.

Faremo il resto dopo, quando sarà passato: andremo in giro, al bar e al ristorante, al cinema e teatro, in palestra e a ballare. Riprenderemo i viaggi.

Lo faremo non per un’egoistica rivincita, ma solidarietà a sostegno a quella parte dei nostri concittadini – oltre al personale sanitario e ai medici per i quali non avremo mai un grazie abbastanza grande – che il virus economicamente colpisce: baristi, ristoratori, albergatori, operatori turistici, agenti di viaggio e di spettacolo. Lo faremo per dare l’aiuto della nostra presenza a chi adesso soffre per la nostra assenza.

Riprendiamo quello spirito che ci fa estrarre dal cassetto il tricolore ad ogni finale dei mondiali. Riprendiamo la strofa di quell’inno che i giocatori cantano con la mano sul cuore: “Stringiamoci a coorte”. Se vale per una partita figuriamoci per una questione vitale come questa. E, sia pur distanti e privi di abbracci, stringiamoci, alleiamoci nell’intento comune di non sacrificare i nostri fratelli e noi al contagio.

(*) direttore “Il Popolo” (Pordenone)

 

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