Sisma tre anni dopo/7

Terremoto Amatrice. Mons. Pompili (Rieti): “Stanchezza e disincanto” per un sogno che rischia di svanire

Tre anni dopo il sisma nelle popolazioni terremotate prevale un senso di “stanchezza e disincanto”. Con la ricostruzione ferma al palo, dice il vescovo di Rieti, mons. Pompili, “il sogno” di tornare alla normalità rischia di svanire immerso nelle pastoie burocratiche. L’impegno della Chiesa locale per “rigenerare” una comunità oramai ridotta nei numeri.

foto SIR/Marco Calvarese

“Stanchezza e disincanto”: non usa altre parole mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, per descrivere lo stato d’animo della popolazione di Amatrice, Accumoli, Cittareale, Borbona, Leonessa, Posta e degli altri piccoli centri terremotati della sua diocesi. Tre anni dopo il sisma delle 3.36 del 24 agosto 2016, Amatrice si presenta come una grande spianata, libera dalle macerie, segnata da una lingua di asfalto percorsa su e giù da auto e camion. “Alle parole non sono seguiti molti fatti” spiega il vescovo che fa sue le parole di Silvia Guerrini, la studentessa che, lo scorso 18 luglio rivolgendosi al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in visita ad Amatrice per inaugurare l’Istituto omnicomprensivo “Romolo Capranica”, disse: “in questa scuola si respira un’aria di normalità, senza più il peso della precarietà ma purtroppo fuori dalla scuola il sogno svanisce”. “All’esterno manca qualsiasi segnale che faccia intendere la ricostruzione, fatto salvo un cantiere di un albergo-ristorante e un condominio – conferma mons. Pompili – per il resto solo un’immensa spianata che crea angoscia rispetto al centro storico”.

“Siamo in attesa di capire come la ricostruzione partirà”.

Principale accusato della mancata ricostruzione è la burocrazia, rea di rallentare se non di bloccare i cantieri…
C’è un problema di Sistema Paese: di fronte alle emergenze si muove con velocità salvo poi rivelarsi lento, se non impreparato, rispetto alla progettazione. Insomma, siamo molto bravi nel problem solving ma molto inadeguati quando si tratta di progettazione.

Perché, secondo lei?
La macchina statale fatica a mettere in fila le responsabilità. Mi riferisco alla filiera dell’ufficio della Ricostruzione, della Sovrintendenza con tutta la vincolistica laboriosa e mi riferisco sia al soggetto pubblico che a quello privato. Il fatto che a livello di ricostruzione privata al momento siano poche le domande è un segnale da interpretare non solo come un segno di deresponsabilizzazione da parte della base, ma anche come un segno di sfiducia rispetto a questo processo che dovrebbe vedere coinvolto soprattutto il popolo delle seconde case oltre quello dei tornati a vivere nel territorio. La debolezza di questo sistema spiega i ritardi. Credo ci voglia un’assunzione di responsabilità da parte di tutti.

Dal 2016 ad oggi si sono avvicendati ben tre Governi e tre Commissari straordinari per la Ricostruzione…
Questo turn over continuo di persone e di responsabilità legate ai Governi dice un problema avvistato sin dall’inizio.

Una classe politica non può pensare ogni volta che c’è un cambio di azzerare la situazione e ricominciare daccapo. È una vera miopia perché la ricostruzione, nella migliore delle ipotesi, dura 10/20 anni. Pensare di intestarsi per intero un’opera del genere significa non avere il senso delle cose.

È necessario, infatti, dare continuità alle scelte fatte ed evitare facili contrapposizioni che non servono a niente e a nessuno.

Dopo tre anni i nomi e le vite delle vittime rischiano di diventare freddi numeri…
Sin dall’inizio abbiamo cercato di ricordare i nomi e i volti delle persone che nel sisma hanno perduto la vita. Lo abbiamo fatto pubblicando un libro, curato dalla nostra Sabrina Vecchi, dal titolo significativo ‘Gocce di Memoria’ che raccoglie una piccola traccia biografica per ogni vittima del sisma del 24 agosto così da non dimenticarne la memoria.

La ferita non si è affatto rimarginata anzi direi che sottotraccia resta una sofferenza che cova nelle tantissime famiglie colpite e coinvolte nella tragedia. Per questo motivo credo che il processo della ricostruzione debba essere più opportunamente definito di rigenerazione.

Esso deve far leva sulla qualità delle persone che hanno bisogno di essere ascoltate, accompagnate e coinvolte in modo responsabile.

Che cosa sta facendo la Chiesa in questo percorso di rigenerazione?
Innanzitutto stiamo cercando di tenere unita questa comunità che si è enormemente ridotta. È importante trovare forme di socializzazione per ritrovare fiducia e non lasciarsi andare alla lamentela. Senza attendere le cose dall’alto. Non dobbiamo scoraggiarci ma

prodigarci per  guadagnare un filo di speranza

attraverso la realizzazione di qualche progetto. Noi come diocesi ci stiamo concentrando sulla “Casa del Futuro” da realizzare all’interno di quella che era l’area dell’Istituto “Don Minozzi”.

A che punto è l’opera?
Con lo studio dell’architetto Stefano Boeri siamo alla progettazione esecutiva. Speriamo che – con tutti i partner che sottoscrissero il protocollo di intesa (Regione, Comune, Miur, Mibact, Diocesi, Don Minozzi) – si possa presentare, a tre anni dal terremoto, un crono-programma della rivalorizzazione di questa area. È un sogno che ha a che fare con una serie di proposte che vanno da un centro per l’educazione ambientale dei giovani ispirato all’enciclica Laudato Si’, all’area delle arti e dei mestieri dove nascerà una realtà orto-sociale di coltivazione della terra, fino all’area del silenzio e della meditazione e all’area dei beni comuni che vedrà la sede comunale provvisoria, il museo diocesano e qualcosa della Polizia stradale. La finalità è fornire alle persone e ai giovani occasioni importanti di crescita umana e spirituale. La gente di qui chiede di vedere qualcosa di ricostruito per tornare a credere nel futuro.