Sisma tre anni dopo/4

Arquata del Tronto. Mons. D’Ercole: “Il dopo terremoto è un altro terremoto qualche volta ancora peggiore”

Tre anni dopo il sisma dell’agosto 2016 “siamo passati dalla disperazione alla rassegnazione” dice mons. D’Ercole parlando della ricostruzione “praticamente quasi ferma”. Arquata del Tronto, con le sue tredici frazioni, è il centro della diocesi di Ascoli Piceno che ha pagato il più alto contributo di vite umane, oltre 50. La Chiesa è in prima linea nell’ascoltare e accompagnare la gente terremotata. Allarme suicidi  

foto SIR/Marco Calvarese

“Ripenso a quella notte del 24 agosto 2016. Le scosse erano ancora in corso e vedevo cadere case e muri tra la disperazione della gente.

Oggi tanti terremotati sono passati dalla disperazione alla rassegnazione, che è la cosa peggiore. Preferisco la disperazione urlata a una rassegnazione silenziosa che significa morte anticipata. Vedo tutto questo nel volto di molti anziani e anche di tanti bambini”.

Tre anni dopo il sisma dell’agosto 2016 mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, ricorda la corsa in auto verso Pescara del Tronto, frazione del comune di Arquata, le località della sua diocesi più colpite dal terremoto. Oltre 50 morti. Ma adesso lo sguardo è rivolto al presente. Al pianto, alle grida di disperazione di quelle ore oggi si sono sostituiti silenzio e rassegnazione. A denunciare la ricostruzione ferma sono, anche qui come in altre zone terremotate del Centro Italia, i lenzuoli appesi un po’ ovunque come anche tanti cartelli con su scritto “Vendesi”, “Vendesi attività” e “affittasi”. Solo con le prime luci dell’alba del 24 agosto la grandezza di quella tragedia prese forma. Una forma che permane tutt’ora. Basta girare per Arquata del Tronto, e nelle sue tredici frazioni, tra cui Pescara del Tronto, Piedilama e Pretare per rendersene conto. Macerie ovunque, case e chiese sventrate. A vegliare su di esse i loro abitanti ospitati nelle casette, le Soluzioni abitative di emergenza (Sae).

Vogliamo parlare di ricostruzione? Mons. D’Ercole intuisce la domanda e anticipa la risposta. “Tutti sanno che siamo praticamente quasi fermi per tante ragioni che non vanno tutte addebitate alla politica. Ci sono difficoltà concrete. Basta dare uno sguardo a questi territori per rendersi conto che ricostruire richiede una tantissima fatica e un grandissimo investimento in termini anche economici. Se poi a tutto ciò si aggiunge  una certa lentezza burocratica è chiaro che siamo abbastanza fermi. La ricostruzione privata, seppur lentamente, è partita. Anche quella delle chiese è andata avanti perché resa possibile dalla prima ordinanza, emanata dall’allora Commissario straordinario di Governo alla Ricostruzione, Vasco Errani. Abbiamo riaperto 34 chiese nel giro di un anno e mezzo. Dopodiché tutto si è fermato e solo qualche settimana fa è arrivata la notizia di un’ordinanza che spero ci dia di nuovo la possibilità, come soggetti attuatori, di restaurare altre chiese”.

La burocrazia è il freno a mano della ricostruzione. Questo appare chiaro. Ma che cosa occorre per ricostruire senza perdere altro tempo?
Snellire le procedure. Si ha paura della corruzione. Ma questa aumenta se la burocrazia cresce. Se per costruire qualcosa invece di tre semplici passaggi se ne devono fare trenta o più, come si può pensare che non ci sia corruzione? Solo per tagliare un pezzo di muro ho dovuto attendere sei mesi.

La burocrazia è il primo nemico della ricostruzione, dello sviluppo e di tutti coloro che vogliono fare qualcosa di serio.

Poco fa ha detto che preferisce “la disperazione urlata a una rassegnazione silenziosa”. Perché?
La gente è un po’ stanca, spesso sfiduciata e credo cominci a perdere la voglia di restare qui. Il rischio più grande è questo. Sono terre di montanari che non perdono la grinta ma bisogna dare concreti segni di ripresa. Questi sono centri poco abitati di inverno ma che si ripopolano nei mesi estivi quando tanta gente torna nei propri luoghi di origine.

Se non si ricostruirà sarà la morte di queste terre. Fra 20 o 30 anni qui non ci sarà più nessuno. Diventerà una parte morta dell’Italia, dove i giovani, che sono i bambini di oggi, tendono a fuggire sia per la paura ancora viva del sisma, sia perché non vedono futuro.

Noi siamo dispostissimi a dare un aiuto per dare segni di ripresa perché sarà un servizio reso a questa gente e all’Italia. Sa cosa credo?

Mi dica…
La gente preferisce di vedere ricostruita la chiesa prima ancora che la propria abitazione perché è convinta – e lo sono anche io – che se si ricostruisce la chiesa si riedificherà anche il paese. Diversamente sarà la fine.  Siamo in una fase di speranza, che si attenua sempre di più, e di attesa che spero possa essere colmata da qualche buona notizia.

In questo tempo di attesa qual è l’impegno della Chiesa?
Il nostro compito è dare forza per affrontare queste difficoltà. Possiamo aiutare sul piano economico – lo abbiamo fatto e lo facciamo ancora anche se sempre di meno – ma, come Chiesa, forse questo

è il momento di investire di più sull’ascolto e sull’accompagnamento.

È un invito che rivolgo ai sacerdoti e lo ripeto ogni giorno a me stesso. Oggi l’aiuto più grande che possiamo dare alla nostra gente è ascoltare i loro lamenti, i loro pianti, i loro sfoghi. L’ascolto è una medicina importante in situazioni drammatiche perché

il dopo terremoto è un altro terremoto qualche volta ancora peggiore

e che sfocia in tanti suicidi. Questo è un tema che non va dimenticato.

Ascolto e accompagnamento per ricostruire moralmente e spiritualmente questa terra?
Unirei anche la capacità di comunicare. Per questo ringrazio tutti coloro che attraverso i media danno voce a chi ormai per farsi sentire deve protestare. Fare sentire la loro voce è un grande servizio a queste popolazioni, all’Italia e all’uomo che deve essere sempre rispettato e aiutato a credere in se stesso.