
Prevedere l’andamento dell’economia non è un esercizio accademico. Stime positive incidono sugli investimenti delle imprese e sui consumi della popolazione. Scenari negativi – viceversa – frenano le iniziative. Sapere che il 2018 parte con un certo ottimismo (lo dicono le ultime rilevazioni di previsione) fa sperare – ma non assicura – che ci saranno più posti di lavoro, maggior rispetto dei contratti e delle condizioni di lavoro, meno povertà e più inclusione. Non si può che partire dai dati previsivi per immaginare i prossimi mesi. Vediamoli.
Due rilevazioni dell’Istat ci raccontano, per quanto possono esprimere dei numeri, gli umori dei consumatori e delle imprese. Sul sito dell’Istituto si possono interpretare in serie storica, per anno e per mese. L’indagine di dicembre sullo stato d’animo delle famiglie mostra l’indice a quota 116,6% ed è il più alto degli ultimi due anni. Il campione di italiani è positivo sull’andamento generale dell’economia, è abbastanza positivo sulla riduzione della disoccupazione, non è convintissimo che tutto ciò si rifletterà sulla propria condizione.
Le condizioni di vita – spesso – cambiano più tardi della ripresa economica.
Per le imprese il dato di dicembre porta l’indice a 108,9 punti. Un piccolo passo avanti rispetto al mese precedente e ben 8 punti migliore rispetto a dodici mesi prima. Le prospettive non sono buone per tutti, edilizia e costruzioni – ad esempio – sono indietro rispetto al manifatturiero. Crescono gli ordini in generale e manca la domanda interna. Le scorte di magazzino sono significative.
Ci si deve ancora affidare ai grandi uffici studi, capaci di reperire e incrociare dati, per cercare una risposta non emotiva (e men che mai astrologica) al “Come andrà quest’anno?”.
Stime per il 2018 del Pil (Prodotto Interno Lordo – il principale indicatore sul valore dei beni e dei servi prodotti in Italia in un anno) sono in circolazione e concordano su un incremento dall’1,3 (Moody’s) all’1,5% (Ocse), con stime intermedie di altri soggetti qualificati. Vengono periodicamente aggiornate in base alle evoluzioni internazionali e nazionali.
Gli andamenti dell’economia reale non vanno confusi con le Borse, anche se il collegamento esiste. Un euro troppo forte – per fare un esempio – può frenare le esportazioni delle aziende europee che non hanno produzioni esclusive. Anche se rende meno caro l’acquisto di beni intermedi comprati in valuta più debole.
E ci sono poi le scelte di chi governa. Le elezioni italiane del 4 marzo non necessariamente influenzeranno l’economia che in altri Paesi (Belgio senza Governo per 541 giorni, Spagna al voto ripetuto, vuoto olandese di sei mesi) si è mossa nella stasi parlamentare. E’ interessante – e indicativo di tendenze europee oltre che Usa – quanto sta accadendo nella potente Germania: per costruire un’alleanza di Governo la premier Angela Merkel sta trattando, fra l’altro, anche sulla riduzione delle tasse sulle imprese (ora oltre il 30%) dopo che Donald Trump ma anche Gb e Francia hanno programmato oneri più leggeri. I riflessi sui debiti degli Stati saranno da valutare.
Tassi di interesse ancora bassi e riduzione delle tasse per le imprese dovrebbero in teoria spingere gli investimenti e l’occupazione. Il numero dei lavoratori attivi sarà, più che mai in Italia, il dato macroeconomico da seguire perché incide sul quotidiano delle famiglie e della collettività. Si parte dai 23 milioni e 82 mila occupati di fine ottobre, dipendenti e lavoro autonomo, in crescita di 303 mila sui dodici mesi anche se spinta dai tempi determinati. Le stime sono positive, la realtà sarà da scrivere mese per mese.