
Ci sarà anche una piccola delegazione dell’Estonia, Paese che in questo semestre guida la presidenza del Consiglio dell’Unione europea, tra quelle che arriveranno a Roma per il dialogo internazionale “(Re)thinking Europe – Il contributo dei cristiani al futuro del progetto europeo” voluto da Papa Francesco e dai vescovi della Comece (Vaticano, 27-29 ottobre): Tunne Kelam, membro del Parlamento europeo, con la moglie Mari Ann, già deputata del Parlamento estone e il vescovo Philippe Jourdan, amministratore apostolico alla cui responsabilità è affidata la cura della comunità cattolica, che raccoglie circa settemila fedeli (meno dell’1% della popolazione), i quali, insieme a luterani e ortodossi, vivono tra il 75% di estoni senza religione. Il Sir ha intervistato mons. Philippe Jourdan a pochi giorni dall’inizio dell’evento.
Monsignore, con quale spirito guarda all’incontro di Roma?
È un’esperienza nuova e un concetto nuovo d’incontro: a tutto tondo su scala europea tra personalità politiche e del mondo religioso, ma anche in modo sistematico, con una delegazione di ogni Paese. È difficile da immaginare. Sarà certo un’occasione per noi, persone di Chiesa, conoscere in un contesto più informale personalità politiche che sono in relazione con la Chiesa cattolica. Magari riusciremo a spiegare loro che le convinzioni religiose di ognuno non sono un elemento problematico e che la dottrina cristiana è anche una fonte di ispirazione e di nuove idee per la costruzione europea, per un’Europa più stabile, più forte, che dà più speranza alla gente. Perché la religione non è un ostacolo al progresso europeo.
L’Estonia è particolarmente protagonista in Europa proprio in queste settimane e mesi. Come sta andando l’esperienza della Presidenza di turno?
È molto impegnativo e tutti i ministeri e i funzionari statali sono mobilitati nell’accogliere le delegazioni nazionali che continuamente arrivano per i diversi impegni europei. Persino le vicende locali sono rimandate a dopo gennaio. Benché ci siano alcuni euroscettici, prevale l’orgoglio per il fatto che l’Estonia ha ripreso il suo posto in Europa, con tutti i doveri e i diritti che ne conseguono. È apprezzato anche il fatto che in questo modo l’Estonia si faccia conoscere. Il contributo che il nostro Paese vuole dare all’Ue è molto specifico, ma ha grandi conseguenze etiche: l’alta tecnologia e la digitalizzazione. L’intenzione è che, anche se siamo piccoli, la nostra presidenza non sia un fatto simbolico, ma un reale contributo alla costruzione europea. Certo l’invito che recentemente la nostra presidente ha di nuovo sollecitato qui a Tallin davanti ai presidenti degli Stati europei, a integrare maggiormente le nuove tecnologie per una maggiore efficienza, è più facile da realizzare per un Paese come l’Estonia, mentre a livello di Unione è un traguardo impegnativo. Soprattutto, accanto agli aspetti positivi delle tecnologie, ci sono temi su cui stiamo riflettendo…
Ad esempio?
Riflettiamo ad esempio sul fatto che la tecnologia e il digitale non diventino un’esigenza primaria che marginalizza la persone all’interno della stessa società che ha creato. Viviamo però in Estonia anche problemi specifici, come quelli legati alla sicurezza e all’espansione della Nato sulle frontiere della Russia. Di per sé sono temi di interesse del continente più che dell’Ue, ma comunque noi come Chiesa non possiamo restare insensibili al fatto che in Estonia soldati di tutte le nazioni arrivano e partono continuamente, aerei militari ci passano sopra la testa e le truppe si esercitano. Di fatto vediamo in questi mesi molti ministri e presidenti dei Paesi europei, ma vediamo ancora di più soldati degli eserciti di diversi Stati e questo è preoccupante. Sappiamo che vengono non per fare la guerra, ma conservare la pace, eppure ciò crea un’atmosfera di paura e rende sempre presente la possibilità di una guerra.

(Foto: AFP/SIR)
E come Chiese, come vi state muovendo nel semestre?
Fino ad ora non abbiamo potuto dare un contributo grande. Aspettiamo il 16-17 novembre quando ci sarà a Tallin un momento più importante sul tema “Religione. Società. Stato”, dove noi come Chiesa saremo chiamati a esprimerci.
Ripensare l’Europa, come vuole fare l’appuntamento di ottobre a Roma, richiede di considerare la tensione identità nazionale-unità che oggi minaccia seriamente il progetto dell’Ue. All’est è vissuta in modo diverso dall’Ovest dell’Europa, ma è comunque presente, non è vero?
Per i Paesi dell’Est uno stimolo molto grande per l’integrazione europea è stata la possibilità e la garanzia di conservare l’indipendenza e l’identità del Paese, pur trovando protezione contro quello che tradizionalmente, forse in modo esagerato, è visto come un pericolo, il grande vicino orientale. È vero anche che alcuni Paesi, in modo particolare forse Polonia e Ungheria, hanno sentito che l’Ue sembra voler promuovere una concezione di uomo e un tipo di società non sempre consonante con i valori che amiamo. Per questo gli euroscettici qui dicono che tutte e due le Unioni, la presente e la passata, hanno comunque un’agenda ideologica. Di per sé le nazioni dell’Est vogliono essere nell’Ue e sentirsi sicuri, ma vedono alcuni atteggiamenti che ricordano il “grande fratello” di prima; accanto alla disponibilità ad aiutare si percepisce l’imposizione di un modello di società, di alcune leggi che l’Ovest considera a torto come diritti. Per questo alcuni popoli si sono sentiti traditi. Accanto a questo c’è anche il fatto che si danno valutazioni negative su fenomeni che si conoscono poco, come ad esempio l’immigrazione: qui certamente come Chiese dobbiamo aiutare le persone a vedere le cose in maniera più serena ed equilibrata.