
Lo scoppio del conflitto fra Israele ed Iran ha evidenziato ancora una volta di più una realtà davvero terribile ed i cui contorni vanno, purtroppo, sempre maggiormente delineandosi:
ci stiamo abituando alla guerra.
Questo stato d’animo, però, non deve ridursi ad un qualcosa che possa essere semplicemente metabolizzato come un dato di fatto a cui assistere impotenti così come avviene per l’Ucraina piuttosto che per Gaza o per l’altra sessantina di conflitti attivi in tutto il mondo.
L’errore da evitare è il considerare tutto questo come un qualcosa che non ci riguarda perché apparentemente lontano per motivi geografici: considerazione opinabile (oltre che non condivisibile) soprattutto perché diviene modo per esorcizzare la paura di un espandersi degli scontri con l’inevitabile coinvolgimento (in un domani che rischia di essere già oggi) anche della nostra quotidianità.
E questo ben al di là delle conseguenze dirette ed indirette, sociali ed economiche che già si fanno sentire anche alle nostre latitudini.
Rischiamo di divenire vittime di quella “cultura dell’indifferenza” che trova la propria radice nell’attribuzione della “colpa” all’una o all’altra parte, giustificando di conseguenza violenze e vittime inerti.
Se non ci possono essere dubbi nel distinguere aggressori ed aggrediti, è altrettanto vero che ad essere sconfitta è la persona umana ogni volta che in una parte del mondo scoppia un conflitto e si affida alle armi la soluzione delle controversie: uomini e donne calpestati nella propria dignità e lasciati inermi ed indifesi dinanzi la capacità distruttiva di macchine da guerra sempre più sofisticate e devastanti nella loro impersonalità.
È inutile negare che, dinanzi quanto sta avvenendo, a farsi prepotentemente spazio è la disillusione, l’incapacità apparente di credere che sia possibile percorrere una via di pace e che la voce del dialogo possa ancora sovrastare quella delle armi.
Certamente il pericolo è quello di essere bollati come utopisti.
Come credenti siamo, però, sempre chiamati a rendere ragione della Speranza che è in noi: quella Speranza che sola può salvare l’umanità dall’autodistruzione.
Ogni giorno di più riusciamo oggi a capire la forza profetica delle parole pronunciate da Papa Francesco quando, anche dal Sacrario di Redipuglia nel 2014, denunciò come l’umanità stesse imboccando il sentiero di non ritorno di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi, essa stessa già “conflitto globale”.
Come credenti non possiamo cedere alla rassegnazione e dobbiamo continuare ad avere quello sguardo di amore verso l’umanità sofferente che può essere sostenuto dalla nostra preghiera, come ci ha ricordato Papa Leone XIV, per “una pace disarmata, una pace disarmante, umile e perseverante”.
Raccontando l’impiccagione di un bambino a cui aveva assistito nel campo di concentramento ad Auschwitz, Elie Wiesel scrisse: “Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque il tuo Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo, è appeso a quella forca…”.
La vittima della violenza dell’uomo è sempre Dio stesso. E questo si ripete ogni giorno, da quel pomeriggio di 2000 anni fa sul Golgota ad oggi.
(*) direttore della “Voce Isontina”