Santo Stefano

At 6, 8-10; 7,54-60; Mt 10,17-22

Le parole di Gesù ai discepoli si avvereranno presto. Innanzitutto sulla sua persona: lui è l’Agnello immolato, condannato, flagellato e messo a morte. Ma sarà anche la dolorosa esperienza delle comunità cristiane dei primi decenni: perseguitate, isolate, umiliate. E poi, per molti cristiani, la situazione descritta dal Vangelo è ancora oggi una realtà in diverse parti del mondo. Viene subito da chiedersi: ci informiamo, almeno, su queste situazioni? Sosteniamo i nostri fratelli cristiani perseguitati e perfino uccisi?

Ogni discepolo è associato al destino dell’Agnello, preda della ferocia del lupo. Ma è proprio l’Agnello a svelare il senso del dramma della storia: il bene vince il male perdendo, e il male perde quando sembra che vinca. La croce è la parola più sapiente perché sa che il male si arresta solo quando uno che lo riceve non lo restituisce. È come dire che il male non sta tanto nel soffrire e nel morire, ma nel far soffrire e nel far morire. Gli agnelli, le pecore – tante volte nominati e portati ad esempio da Gesù nelle sue parabole – sono animali utili e miti: sia in vita che in morte, danno cibo e vestito. Sono il simbolo di Dio stesso, l’Agnello immolato che toglie il peccato – il male! – del mondo. Sta a noi essere prudenti e semplici: la prudenza, per sottrarci all’inganno del male; la semplicità che è la fiducia del bimbo che si affida alla madre. Ogni nostro patimento non sarà mai una sconfitta, ma la testimonianza resa al Signore della vita.

È difficile riuscire a restare fedeli al Signore nelle persecuzioni. Davanti ai lupi viene voglia di fuggire! Non tutti lo fanno. Nella Chiesa apostolica il giovane Stefano è stato fermo, in tribunale e sotto le pietre. Tra i primi diaconi, Stefano aveva compreso molto bene che cosa significasse pregare per gli uomini: “Dare sangue dal proprio cuore”, offrire al loro cuore il sangue di Gesù. Mentre era colpito, Stefano intercedeva per i suoi persecutori. Intercedere significa cedere la propria vita fra due contendenti, essere disposti a dare la propria vita per l’altro. Padre Massimiliano Kolbe è un altro intercessore.

Così ha scritto di Stefano San Fulgenzio di Ruspe: “Ieri abbiamo celebrato la nascita nel tempo del nostro Re eterno, oggi celebriamo la passione trionfale del soldato. La carità che fece scendere Cristo dal cielo sulla terra, innalzò Stefano dalla terra al cielo. Stefano aveva per armi la carità e con essa vinceva ovunque. Per mezzo della carità non cedette ai Giudei che infierivano contro di lui; per la carità verso il prossimo pregò per quanti lo lapidavano. Sostenuto dalla forza della carità vinse Saulo che infieriva crudelmente, e meritò di avere compagno in cielo colui che ebbe in terra persecutore. Dove Stefano, ucciso dalle pietre di Paolo, lo ha preceduto, là Paolo lo ha seguito per le preghiere di Stefano perché la carità esulta in tutt’e due”.

Stefano subì le stesse accuse rivolte pochi anni prima contro Gesù. Come Lui fu condannato a morte e ucciso. Il sinedrio non aveva il potere di ordinare esecuzioni capitali, ma non ebbe neanche il tempo di concludere il processo per emettere una regolare sentenza. Un gruppo di fanatici gli aveva sottratto Stefano, aizzando contro di lui il furore del popolo. Come Gesù, Stefano perdonò chi lo stava uccidendo. I cristiani raccolsero il corpo del martire e gli diedero degna sepoltura. La storia delle sue reliquie entrò nel mondo della leggenda e in ogni parte sorsero chiese in suo onore, ma il monumento più bello resta senza alcun dubbio quanto Luca scrisse di lui negli Atti degli apostoli.