Vangelo del 1° maggio: il Risorto salva dalla sterilità e rinnova la comunione

L’incontro col Risorto, evidenzia un vuoto e un compito: “Figlioli, non avete nulla da mangiare? No”. È proprio così che irrompe la Pasqua: dagl’inferi del nostro niente, amato e rispettato da Gesù, e chiamato in causa. Con inconcepibile, tenerezza che rivoluziona la vita. Questa è la Pasqua reale, non quella delle cartoline o dei messaggini riciclati. È la situazione di noi oggi, nel tempo di Pasqua, con le fatiche, i pensieri, le esitazioni e le severe domande che sono quelle di prima. Ma “dopo queste cose” (Gv 21,1) non è più la stessa cosa

foto SIR/Marco Calvarese

“… era la terza volta” (Gv 21,14). La terza manifestazione di Gesù risorto, raccontata nell’aggiunta del Quarto Vangelo – lo sappiamo – è diversa dalle altre. Ha dei tratti singolari. È la manifestazione che coglie una Chiesa post pasquale, ulteriore rispetto a quel “primo giorno dopo il sabato”: potremmo dire che ritrae una Chiesa in crisi.

C’è già stata una conclusione al Quarto Vangelo, infatti, sulle prime apparizioni (“Dopo questi fatti”, è l’esordio di Gv 21,1). Qui non siamo più a Gerusalemme, siamo in quella Galilea a cui il Risorto nel primo manifestarsi rimanda (Mt 28,10; Mc 16,7; cf Lc 24,6). Gli Undici si sono dispersi, sono ormai mescolati ad “altri” discepoli. Come a suggerire: la terza volta, è ogni giorno della nuova “normalità”. È oggi.

Dal mattino radioso, al notturno del mare aperto. Per grazia assoluta, dal buio di quella notte spenta inizia la storia nuova. È la grazia della Pasqua quotidiana, la sua fecondità nascosta.

L’uso del tempo presente a esprimere la presenza di Gesù: “Sta Gesù, e dice loro: ‘figliolini…’…” (Gv 21,4s.) lo rivela.

È la Pasqua che intride, ridisegna e rilancia la storia quotidiana.

“Io vado a pescare”: comincia così, con la dichiarazione di Simon Pietro, la terza manifestazione: è in Galilea, in una situazione quasi di ritorno indietro al lavoro di prima, a una quotidianità opaca, a solidarietà spente. Ed è buio. Per grazia assoluta, dal buio di quella notte – spenta e sterile – trae inizio una storia nuova.

“Io vado a pescare”. In questa dichiarazione di Simon Pietro c’è tanto anche della nostra storia. Non dice. “Andiamo a pescare”, ma comunica la sua personale decisione; la sua intenzione potrebbe essere anche di recedere da quel mandato che l’aveva trasferito dalla pesca dei pesci alla comunione della pesca di uomini: di tornare indietro. Il trauma della Pasqua poteva averlo disorientato totalmente. Sono gli altri che in certo modo si ricompattano attorno a lui e gli fanno da contesto per vivere insieme questa “terza manifestazione”. È importante qui la funzione dei sei compagni, per ri-orientare Simon Pietro. Guidato dai sei, guidato dal grido del più giovane, Simone ritrova il suo passo della sequela di Gesù nella Chiesa. E con lui i sei si ricompattano.

Domandiamoci: come la vicenda di quei “sette” (Gv 21,2) è Vangelo per noi, oggi? Come ci lasciamo prendere dalla forza di quella buona notizia? Facciamo attenzione a questo Vangelo e alle sfide che oggi noi dobbiamo affrontare, come quei sette che vanno a pescare.

Quei sette. Chi erano? Simone Pietro. E, accanto a lui – è l’unica volta che son messi vicini –, Tommaso detto Didimo. Un “gemellaggio” quello dei due apostoli che – nella sua singolarità – ci è di “vangelo”. Tutti e due accomunati da una soglia varcata (da Pietro e da Tommaso, al c. 20) e da varcare. E poi, Natanaele di Cana di Galilea. Con lui è evocata la quotidianità, e la nascosta pienezza delle ore “sotto il fico”. Solo dopo sono nominati, mischiati agli “altri” discepoli, i due “colossi”, i figli di Zebedeo: non più in posizione privilegiata, tra gli anonimi – eppure ci sono, rimangono. E poi “gli altri due” senza nome che ci rappresentano tutti, noi discepoli e discepole venuti in seguito. Uno splendido “insieme”. Promettente, senza saperlo.

Ma il Maestro rimane fedele ai suoi disorientati: attraverso la morte, rimane. Teneramente previene e ha cura. E Gesù sta, all’alba, quando loro sono ancora al buio. “Figliolini”, li chiama. La tenerezza di questa terza manifestazione. La capacità di prendersi cura di una realtà così segnata dal limite, dal disorientamento, dall’ombra dell’estraneità gettata da un dolore radicale – oggi, la guerra.

“Figliolini..!”. La tenerezza che si sente nella domanda di Gesù sul cibo, insieme a una dolcissima ironia, richiama gli accenti di Dio in Osea. “Su di lui mi chinavo per dargli da mangiare”.

La tenerezza autorizzata dalla Pasqua è il nuovo comandamento nei rapporti tra i discepoli, che raggiunge anche noi. Ed è rivoluzione, dopo tanta violenza, menzogna, abbandono e tradimento.

L’incontro col Risorto, evidenzia un vuoto e un compito: “Figlioli, non avete nulla da mangiare? No”. È proprio così che irrompe la Pasqua: dagl’inferi del nostro niente, amato e rispettato da Gesù, e chiamato in causa. Con inconcepibile, tenerezza che rivoluziona la vita. Questa è la Pasqua reale, non quella delle cartoline o dei messaggini riciclati.

È la situazione di noi oggi, nel tempo di Pasqua, con le fatiche, i pensieri, le esitazioni e le severe domande che sono quelle di prima. Ma “dopo queste cose” (Gv 21,1) non è più la stessa cosa. Che cosa è accaduto in questa nostra Pasqua, che irrompe dai sotterranei di una storia di guerra, armi, brutalità? “Donaci, Padre, di rendere presente in ogni momento della vita la fecondità nascosta della Pasqua, che si attua nei tuoi misteri”, abbiamo pregato in questi giorni.

La confessione di fede del discepolo “che Gesù amava”, irrompe come l’elemento dinamico della scena: “Il Signore, è!”. Il sensorio generato dal sapersi amati è incredibilmente acuto: coglie sempre il Signore al presente, come già nel sepolcro vuoto. Il Signore Gesù, il presente di ogni nostro giorno.

Là, sulla riva del lago, ormai tutti e sette sapevano che “è il Signore”, per via di quel “venite a mangiare” che lo identifica. La nostra quotidiana celebrazione dell’Eucaristia ci situa in questa esperienza. Anche noi “sappiamo bene”, ma che cosa ne nasce?

Il ritorno a riva, al fuoco e al pasto già prono, preparato dal Signore; e, poi, un pasto insieme, silenzioso. È avvenuto il riconoscimento, grazie al discepolo amato: ma il pasto imbandito dal Risorto, è muto. Senza domande. È la manifestazione caratterizzata solo dal “dare da mangiare”. Gesto della comunione, che manca al c. 13.

In una quotidianità “sospesa” il Risorto si manifesta come colui che salva dalla sterilità, ma soprattutto rinnova la comunione.

Questa “terza volta” interpella singolarmente noi, ogni comunità cristiana partecipe degli interrogativi di un’epoca di crisi, un’epoca per molti aspetti simile a quella che segnava la Chiesa degli inizi. Perciò risulta una sorta di “quinto vangelo” – questa ‘terza volta’ – scritto da mani per lo più anonime. La luce della Pasqua che abbiamo vissuto a partire dalla notte pasquale, e che attraverso tutto il tempo di Pasqua siamo chiamate a interiorizzare, manifesta un mondo nuovo che è la rigenerazione del vecchio: di quella luce s’intride, pian piano scende più in profondità, la nostra storia ferita, segnata da profonde rughe di divisione, opacità, violenza, menzogna, guerra.

La luce della terza manifestazione imprime la sua forma alla Chiesa, nata dal fianco trafitto di Gesù innalzato. “Compiuto” è stato tutto – per lui – in quell’Ora; ma deve trovare compimento anche la figura dei suoi discepoli, della trasmissione del suo Dono – la Chiesa. Il passato viene sciolto dalle sue ombre. Nuovi ministeri ecclesiali si annunciano in quella “terza” manifestazione.

Responsabilità umilissima e tremenda al tempo stesso, riceve lo stesso Simone figlio di Giovanni, con la missione che viene rinnovata: di pascere, in luogo di quella di pescare. La responsabilità di vivere come vivente memoria del perdono ricevuto, e come autorità in grazia della corrente d’amore che lo lega al suo Signore, senz’alcuna propria autonomia: “Signore, tu sai tutto!”.

Il Vangelo – qui ma anche altrove, e sempre – è “scrittura aperta”. Le domande che il Vangelo ci pone, le aperture sempre nuove del cammino, sono una provocazione a scrivere il Vangelo con una propria scrittura.

Dalla povertà di quell’essere gli uni nudamente accanto agli altri, tutti sulla stessa barca, in mare aperto, senza prendere nulla. La solidarietà vera si stringe nell’ora della povertà, quando siamo anche attraversate dal sentimento di una fraternità silenziosa, e pure mancante (sono sette i discepoli, e due senza nome …). Da questo “niente” parte l’essere insieme in verità.

Ci aiuti lo Spirito creatore a tendere all’alba che nasce in grazia sua proprio dalla più fonda e infruttuosa notte, senza nascondere l’esperienza dei fallimenti in parole di lamento e recriminazione, ma silenziosamente vigili al sorgere della Luce, attenti e obbedienti a quella improbabile “parte destra” (Gv 21,6) che fa trovare nutrimento; attenti e obbedienti a chi tra noi per prima ci farà capire che “è il Signore!”.

* monaca di Viboldone

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