Quel debito che non fa più paura

La situazione del Paese descritta, nei giorni scorsi, da due dei più autorevoli istituti di ricerca, il Censis e la Svimez, è più preoccupante di quanto si possa immaginare. Il Centro Studi Investimenti Sociali (Censis) afferma che in Italia ci sono oltre 5 milioni di persone che hanno difficoltà a procurarsi pasti “decenti”, mentre, a causa della pandemia, altre 600 mila persone si sono aggiunte alla popolazione che già viveva in condizione di povertà. La situazione, già grave per l’Italia intera, diventa drammatica per il sud. L’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno (Svimez) afferma che “il sud sconta anche un ritardo nei servizi, scolatici e sanitari”, mentre si stima, “una riduzione dell’occupazione al Sud, il triplo rispetto al Centro-Nord”. In generale, sostiene la Svimez, il Covid non ha reso “tutti” un po' più poveri e più uguali”, ma, al contrario, “è stato un acceleratore di quei processi di ingiustizia sociale, in atto ormai da molti anni”.

La situazione del Paese descritta, nei giorni scorsi, da due dei più autorevoli istituti di ricerca, il Censis e la Svimez, è più preoccupante di quanto si possa immaginare. Il Centro Studi Investimenti Sociali (Censis) afferma che in Italia ci sono oltre 5 milioni di persone che hanno difficoltà a procurarsi pasti “decenti”, mentre, a causa della pandemia, altre 600 mila persone si sono aggiunte alla popolazione che già viveva in condizione di povertà. La situazione, già grave per l’Italia intera, diventa drammatica per il sud. L’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno (Svimez) afferma che “il sud sconta anche un ritardo nei servizi, scolatici e sanitari”, mentre si stima, “una riduzione dell’occupazione al Sud, il triplo rispetto al Centro-Nord”. In generale, sostiene la Svimez, il Covid non ha reso “tutti” un po’ più poveri e più uguali”, ma, al contrario, “è stato un acceleratore di quei processi di ingiustizia sociale, in atto ormai da molti anni”. Come dire che la crisi si è scaricata quasi interamente sulle fasce più fragili della popolazione. Di fronte a una situazione così grave, il governo e tutte le forze politiche non hanno altra scelta se non quella di continuare a emettere, anche a debito, decreti per risarcire tutte quelle categorie che, da un giorno all’altro, perdono le loro fonti di sostentamento. Per questo, è stato accolto, con molto favore, il comportamento dei partiti di opposizione che hanno votato a favore dell’ultima manovra di bilancio che autorizza lo stanziamento delle somme necessarie alle provvidenze. D’altra parte, se le persone perdono il lavoro e gli esercizi commerciali abbassano le saracinesche, non ci sono regole che tengono, neppure quelle che vietano di aumentare, oltre misura, il debito pubblico. Lo Stato deve mettere tutti, cittadini e imprese, in condizione di sopravvivere e di sostenere le spese indifferibili, come, peraltro, sta avvenendo in tutti i Paesi europei. Così, dopo i primi decreti “Cura Italia”, “liquidità”, “Rilancio” I e II, emessi in primavera, il governo sta proseguendo con quelli denominati “ristoro” I e II per un valore che si aggira intorno ai cento miliardi di euro, circa un terzo del bilancio dello Stato. Con la prospettiva di dovere continuare a sfornare provvedimenti di aiuto e sostegno fin quando non tornino tutti a lavorare e a produrre reddito. La parola d’ordine sembra essere quella di concedere sussidi, bonus e condoni fiscali, “senza se e senza ma”, a prescindere dall’effettivo stato di bisogno dei destinatari. Cosi che lo Stato continua a fare debiti – si è passati dal 135% al 160% del PIL- sia per chi si è impoverito per davvero, sia per chi, dalla pandemia,non ha tratto danni seri.Nessuna forza politica osa bussare alle porte di chi possiede di più,o di quelle categorie economiche -i servizi digitali, ad esempio- che con la pandemia si sono arricchite, per chiedere loro di contribuire, sia pure straordinariamente, alle maggiori spese sostenute dello Stato. La sospensione del “Patto di stabilità” – quel divieto di fare deficit oltre il 3% del Pil – operata dall’Unione europea, sembra essere stata scambiata per licenza di indebitarsi senza limiti. Di più, si sta facendo strada anche l’idea di una cancellazione, parziale o totale, del debito stesso. In attesa che si avverino i “sogni”, è bene tenere conto che già ora l’Unione europea ci sta consentendo di fare debiti a tassi quasi inesistenti, con possibilità di restituirli, con eccezione di quelli concessi a fondo perduto, a lunga scadenza. Con la particolarità che l’Europa non finanzia né sussidi né riduzioni fiscali e tanto meno condoni, ma investimenti produttivi che guardano al futuro. Da qui la denominazione di Next Generation Eu (prossima generazione) dei programmi di intervento europei. Ecco perché si raccomanda di qualificare la spesa, di destinare, cioè, le somme a debito e quelle che verranno dai fondi europei, per investimenti in opere – sanità, scuola, trasporti, ferrovie, riforma burocrazia e via dicendo – che, mentre danno impulso all’economia, creano quella ricchezza della quale potranno beneficiare coloro – i nostri figli e i nostri nipoti – che sicuramente dovranno pagare i debiti che noi oggi stiamo facendo.

(*) direttore “La Vita Diocesana” (Noto)