
La vita di Gesù Cristo, gli episodi della sua esistenza tramandati dalle Sacre Scritture, dipanati e trasformati in dialoghi più vicini a noi. Conversazioni realistiche come se a vivere al fianco del Messia ci fossimo stati davvero con i nostri sentimenti, le nostre reazioni e le nostre espressioni gergali. Questo era lo scopo delle Laude, nate intorno al Duecento sono sicuramente la forma più diffusa di poesia religiosa a carattere popolare. Sebbene fossero scritte in volgare italiano c’è chi, in seguito, ha pensato di renderle ancora più vicine al popolo traducendole in dialetto. Tra questi c’è Vito Maurogiovanni (1924-2009) scrittore, sceneggiatore, commediografo e massimo esponente del teatro vernacolare barese. La sua opera ‘Cuss mi jè figghie’ (si legga cus mi iè figg), ossia "questo è mio figlio", è stata portata in scena, nella sconsacrata Chiesa Vallisa di Bari, per la quinta edizione di ‘Notti Sacre’, la rassegna di arte, musica, preghiera e spettacolo in giro per le chiese di Bari Vecchia. L’opera è stata interpretata da Cristina Angiuli, che ne ha anche curato la regia, Luigi Angiuli, Vito Latorre e Giancarlo Ceglie. Tutto nasce dall’intuizione di don Antonio Parisi, organizzatore dell’evento, di riproporla senza indugio nella rassegna. Del popolo, per il popolo. La Lauda è sicuramente la forma più diffusa di poesia religiosa a carattere popolare. Essa nasce in Umbria e si configura come una delle prime espressioni del volgare italiano. Gli aderenti alle confraternite religiose (famosa tra queste quella dei Flagellanti) andavano per le strade pregando e cantando, oltre che i tradizionali inni liturgici in latino, nuovi componimenti in volgare: le laude, appunto. Al centro della narrazione episodi della vita di Cristo, lodi della Madonna o anche temi religiosi come il peccato, la misericordia divina e la speranza. Le forme erano semplici e popolaresche, costruite sui metri della ballata, ma non mancavano echi della più raffinata poesia cortese contemporanea. Una voce solista recitava la strofa ed il coro riprendeva con un ritornello: a volte entravano in gioco più voci recitanti e nascevano veri e propri dialoghi in forma drammatica. Quello andato in scena a Bari è un momento centrale della cristianità: la Passione di Cristo. Ma questa volta sapientemente raccontata in forma popolare. Questa forma di poesia e di teatro viene sempre ben accolta dal pubblico. E "Cuss mi jè figghie" non ne fa eccezione. La chiesa Vallisa era gremita e per tutto il tempo dell’opera il silenzio si è fatto spazio. Fatto insolito, anche durante le pause. E il motivo non sta, come qualche ben pensante può immaginare, nella scarsa cultura del popolo. Il dialetto, il vernacolo è parte integrante della vita della gente. Se non esistesse, non esisterebbe, di conseguenza, una identità popolare. Vito Maurogiovanni l’ha sempre intuito e ha così deciso di recuperare, e lasciare in eredità, l’animo più umano, intenso e vero della gente. Non Santi ma esseri umani. L’Ave Verum Corpus di Mozart introduce i teatranti e subito inizia il narratore parlando del Cristo che si reca nel Giardino del Getsemani dopo aver cenato per l’ultima volta con i suoi discepoli. Le parole di Cristo, nella parlata dialettale barese, appaiono ancora più forti e drammatiche di quelle riprese dai Vangeli. È indubbio, i dialetti portano in sé espressioni e toni più aspri rispetto a quelli della lingua italiana. E gli spettatori della Vallisa lo percepiscono, nessuno si lascia distrarre e gli sguardi tendono verso le parole degli attori. Ci sarebbe anche da sorridere per alcune espressioni. "E chiss che ston a grifuà!" (e questi che dormono!) dice Gesù, quasi alterato, quando vede i suoi discepoli addormentati anziché in attesa e in preghiera come lui aveva chiesto. È un’espressione colorita ma nessuno tra gli spettatori si scompone. La lauda è troppo intensa per farlo, i dialoghi catturano e portano direttamente all’interno della vicenda percependo tutta la drammaticità e la tristezza del momento. Ma non è l’unico momento solenne dell’opera. La Lauda attraversa tutte le vicende della Passione di Cristo: dal tradimento di Giuda, ai processi davanti ad Anna, Caifa e poi a Pilato, al suicidio di Giuda, fino al momento della crocefissione. In mezzo il dolore dello stesso Giuda Iscariota, i dubbi di Pilato, le risa di scherno di Erode, e il dolore della Madonna. Quest’ultimo forte e straziante di una donna a cui strappano dalle mani il figlio. E così la Madonna diventa una donna come tante che esprime il suo dolore per suo figlio come farebbe una qualunque donna e madre. In questo sta la forza della voce popolare: non si vivono le vicende bibliche come un testo astratto, ma ponendosi dentro l’animo dei personaggi. Non più Santi ma umani.