Sul tavolo di Biden la riforma della Corte Suprema: un percorso a ostacoli non privo di rischi

Giovedì una commissione bipartisan voluta dal presidente americano Joe Biden ha presentato i risultati preliminari di una proposta di riforma della Corte Suprema. Nella relazione la parola che viene più in evidenza è: rischio. Allargare il numero dei giudici che siedono nel massimo organo giudiziario del Paese rischierebbe di minarne la legittimità. Inoltre imporre una riforma della Corte in questo momento della storia correrebbe il rischio di essere percepita come una manovra di parte perdendo così di efficacia. La relazione finale di questi 36 membri tra costituzionalisti e accademici verrà consegnata al presidente Biden a metà novembre prospettandogli i pro e i contro legati soprattutto all’ampliamento

(Foto ANSA/SIR)

(da New York) Giovedì una commissione bipartisan voluta dal presidente americano Joe Biden ha presentato i risultati preliminari di una proposta di riforma della Corte Suprema. Nella relazione la parola che viene più in evidenza è: rischio. Allargare il numero dei giudici che siedono nel massimo organo giudiziario del Paese rischierebbe di minarne la legittimità. Inoltre imporre una riforma della Corte in questo momento della storia correrebbe il rischio di essere percepita come una manovra di parte perdendo così di efficacia. La relazione finale di questi 36 membri tra costituzionalisti e accademici verrà consegnata al presidente Biden a metà novembre prospettandogli i pro e i contro legati soprattutto all’ampliamento, che se da un lato potrebbe portare ad un ciclo futuro di costanti allargamenti, dall’altra potrebbe garantire la presenza di giudizi rappresentativi di una spaccato ben più ampio della società. Altro tema sul tavolo è la durata del mandato: un giudice è nominato a vita, ma l’opinione pubblica sarebbe favorevole ad un meccanismo di ricambio. Infine si esaminerà il potere di annullare le leggi approvate dal Congresso.

Intanto la Corte Suprema ha ripreso le sue sedute in presenza da una settimana, dopo che per oltre un anno i giudici che la compongono si sono incontrati esclusivamente online. Composto da 6 magistrati conservatori e 3 progressisti, di cui 6 cattolici, 2 ebrei e un anglicano, il massimo organo giudiziario statunitense sarà chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità di molti temi scottanti dal punto di vista sociale e politico che il Congresso non affronta per timore di perdere l’elettorato. I nove giudici dovranno rivedere le leggi statali che hanno modificato i termini di accesso all’aborto stabiliti nel 1973 dalla sentenza Roe vs Vade; dovranno pronunciarsi su una norma che vieta di portare in pubblico armi ben nascoste. Dovranno poi esprimersi sulla libertà religiosa di esporre simboli cristiani; sui benefici concessi da uno stato alle scuole private di ispirazione religiosa e dovranno dibattere se un pastore può accompagnare un condannato alla pena di morte proprio nel momento dell’esecuzione. Sul fronte politico dovranno decidere se accogliere un’istanza del governo che vuole impedire a un detenuto di Guantanamo, Abu Zubaydah, di ottenere le deposizioni di ex appaltatori della Cia che hanno progettato un programma di tortura, messo in atto in un “sito nero” in Polonia. La testimonianza dell’uomo potrebbe rivelare segreti di stato e localizzare il sito segreto.

Al di là dell’agenda serrata su cui dovranno legiferare, i giudici della Corte, in questo momento sono particolarmente attenti ai sondaggi che li vedono precipitati al 40% in termini di gradimento, nel mese di settembre, quando in luglio avevano raggiunto il 49%. I magistrati intervenendo a vari appuntamenti accademici hanno ribadito che i media dipingendoli costantemente come partigiani, di fatto stanno danneggiando l’indipendenza dell’istituzione. È vero che ogni giudice è stato scelto da un presidente con l’approvazione del Senato, ma come ha precisato Stephen Breyer, un membro della Corte collocato nell’area progressista: “Un giudice siede lì per tutti gli americani. Egli non è lì solo per i Democratici. Egli non è lì per i soli Repubblicani. È lì per tutti”.

Coloro che sono coinvolti nelle “sacre responsabilità della giustizia, del servizio pubblico e del lavoro diplomatico” devono amministrare la giustizia in uno spirito di misericordia e fraternità, ha ricordato l’arcivescovo Gabriele Caccia, osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, il 3 ottobre scorso durante la celebrazione della 69ª Red Mass – la Messa rossa, che si tiene annualmente a Washington. La celebrazione si tiene tradizionalmente la domenica che precede il primo lunedì di ottobre, giorno in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti inizia il suo anno giudiziario dopo la pausa estiva. Il nome della Messa nasce dai paramenti liturgici usati: rossi come il fuoco, simbolo dello Spirito Santo. Alla celebrazione partecipano i giudici della Corte Suprema, membri del Gabinetto del presidente, membri del Congresso, membri del corpo diplomatico, funzionari governativi e legislatori, giudici e avvocati. Monsignor Caccia ha voluto richiamare l’enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti” per richiamare ad un giustizia “usata come pretesto per contestare e condannare, o, potremmo dire, per commettere ingiustizie”. Il Nunzio all’Onu ha ribadito che “la giustizia senza fraternità è fredda, cieca e minimalista. La giustizia infusa dalla fraternità, invece, non resta mai un’astratta applicazione delle norme alle situazioni; piuttosto si trasforma in un’attenta applicazione delle leggi alle persone a cui teniamo”, perché tutti “parte della stessa famiglia umana”.

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