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Coronavirus. Raffaele Cantone: “Sono fiero dell’Italia e degli italiani. Sta emergendo la parte migliore”

A colloquio con il magistrato napoletano, esperto di criminalità economica, fino allo scorso ottobre presidente dell'Autorità  nazionale anti corruzione. Raffaele Cantone esamina con il Sir la situazione contingente del nostro Paese e riflette su lavoro, criminalità organizzata, emergenza e condizione delle famiglie, soprattutto al Sud: "Bisogna fare in modo che questi aiuti finanziari destinati alla ripresa dell’economia e alla tutela del lavoro, giungano davvero a chi ne ha veramente bisogno, senza intermediazioni clientelari".

(Foto ANSA/SIR)

Alla guida dell’Anac, (Autorità nazionale anti corruzione), fino all’ottobre scorso, Raffaele Cantone, magistrato, saggista e accademico italiano, vive con apprensione, ma anche con speranza, questo tempo di chiusura forzata a causa del Coronavirus. Già sostituto procuratore a Napoli dove si è occupato principalmente di criminalità economica fino al 1999, è poi entrato nella Direzione distrettuale antimafia di Napoli, di cui ha fatto parte fino al 2007. Si è occupato delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi che hanno portato alla condanna all’ergastolo di numerosi boss. Tornato in quella che da sempre considera “… la mia casa”, lavora anche lui in smart-working tenendo i contatti con l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, cui spetta il compito di selezionare le massime, cioè le poche, brevi frasi che sintetizzano il principio di diritto affermato nelle sentenze pronunciate dalla Suprema Corte. Un impegno che in questo periodo condivide con i suoi collaboratori via web. Lo abbiamo raggiunto per fare un punto su quanto sta accadendo.

Dottor Cantone, da cittadino e uomo del Sud, come sta vivendo questa situazione?
Ho il privilegio in questa fase della mia vita lavorativa di poter lavorare da casa. Il massimario della Cassazione, attraverso gli strumenti informatici, mi consente di fare praticamente tutto in tempo reale e il raccordo con i colleghi e con l’ufficio è assicurato grazie a riunioni periodiche online. Mi sento, però, come gran parte dei cittadini italiani, come in una sorta di incubo dal quale spero di svegliarmi al più presto, pur sapendo, razionalmente, che non è affatto un incubo ma la vita reale. E da napoletano e cittadino meridionale sono doppiamente preoccupato per le conseguenze che le mie terre rischiano di pagare.

Il virus sta flagellando il nostro sistema sanitario che, malgrado i colpi e grazie agli interventi effettuati, sta reggendo all’urto. Presto però ci sarà da fare i conti con le ripercussioni sull’economia.
Io credo che questa situazione abbia fatto saltare un tappo e stia portando al pettine il nodo di una vicenda che esiste da anni, che per troppo tempo si è fatto finta di non vedere e che, in questa fase, rischia di diventare veramente drammatica.

Una sorta di scure pronta ad abbattersi in particolar modo al Sud, dove il lavoro era già precario e quello in nero rappresentava comunque un’alternativa?
Diciamo che c’è un mondo che da sempre lavora “in nero” e al quale, tutto sommato, appartiene tanta gente comune. Persone normali, che non hanno nulla a che vedere con la criminalità organizzata e che conoscono bene quella che dalle nostre parti si chiama “l’arte di arrangiarsi”. Si trovano in questa condizione perché non hanno un impiego fisso, al massimo part-time, anche se alla fine lavorano lo stesso a tempo pieno. E penso in particolare al mondo della ristorazione, del turismo ma anche della piccola impresa, tutti ambiti nei quali è presente un “sommerso” particolarmente significativo. A questa realtà si deve aggiungere poi quella del “piccolo artigianato”. Quella, per capirci, che produce ad esempio scarpe, cinture, capi di abbigliamento, ubicata magari in strutture fatiscenti o angusti sotto scala dove lavora gente spesso priva anche delle minime di condizioni di sicurezza. E spesso lavora anche rifornendo le grandi griffe del nord o estere. Situazioni queste, che fino ad ora sono state oggettivamente tollerate per ragioni che tutti conosciamo. Primo perché probabilmente rappresentano un ammortizzatore sociale. Secondo, perché queste attività, al di fuori del circuito del cosiddetto “nero” non avrebbero avuto la possibilità di realizzare un minimo di produzione. Terzo perché, tutto sommato, queste realtà sono da considerare dei veri e propri distretti industriali, piccoli, ma estremamente importanti all’interno del tessuto economico locale. Creando poi di fatto un minimo di concorrenza, riescono ad essere competitive e rappresentano una valida alternativa rispetto ad aziende estere, molto più grandi e conosciute, che realizzano agli stessi prodotti, di marca o firmati. Per carità, stiamo parlando di situazioni irregolari, che nessuno, tantomeno io, intende assolutamente giustificare, ma che in questa fase e alla luce di quanto potrebbe accadere, rischiano di essere quelle più penalizzate.

In questo contesto il rischio che la criminalità organizzata possa sostituirsi allo Stato è più che concreto…
Credo di sì. Accanto alle precedenti attività ne convivono infatti altre. Anzitutto quelle che io definisco “para-criminali”, ai limiti o contigue a quella criminale, che vanno dai venditori di cd falsi ai parcheggiatori abusivi. E poi ce ne è un’altra, anch’essa presente sul territorio, che fa affari e che vive e grazie alla criminalità. È quella che io chiamo, facendo una esemplificazione, il “welfare mafioso”, presente soprattutto nei quartieri iper popolari, lì dove la povertà, la mancanza di servizi e di lavoro si fa sentire in maniera pesante. In quelle realtà spesso alle famiglie senza disponibilità pensa direttamente la criminalità organizzata: lascia loro solo le briciole, ma crea in tal modo una vasta area di consensi. Mi auguro che questa parte non abbia possibilità e modo di crescere ulteriormente, di trovare nuove risorse, e che soprattutto non finisca per travolgere e fagocitare le altre due. Ecco, questa sì, sarebbe una catastrofe.

Come muoversi per evitare derive di questo tipo?

Ritengo sia necessario intervenire con sussidi temporanei ed eccezionali,

come ha cominciato a fare il governo, senza certamente istituzionalizzare questi meccanismi. Si tratta di aree fra l’altro non raggiunte dal reddito di cittadinanza, che credo sia stata una misura giusta, ma non declinata sempre in modo corretto perché ha finito anche per favorire i non meritevoli. Bisogna però muoversi con accortezza. Non dimentichiamo che al Sud esiste un bacino di consenso clientelare che ha radici lontane e storiche. Dall’acquisto di voti attraverso regali alle famose banconote da 50mila lire divise a metà prima del voto e con l’altra metà data dopo il voto, per arrivare ai famosi “mister 100mila preferenze” in grado di assicurare posti di lavoro nel mondo pubblico o in quello delle attività connesse ad esso. Porre in essere misure di sostegno a favore di famiglie ed aziende, indispensabili per depotenziare l’accerchiamento della criminalità organizzata, sarà un lavoro difficile e complicato. Bisogna fare in modo che questi aiuti finanziari destinati alla ripresa dell’economia e alla tutela del lavoro, giungano davvero a chi ne ha veramente bisogno, senza intermediazioni clientelari. Mi auguro quindi che qualsiasi strumento venga posto in essere dalle amministrazioni, sia a livello nazionale che locale, non si trasformi anch’esso in uno strumento di consenso clientelare.

E qui, un ruolo decisivo, lo giocano gli amministratori
Certo, loro sono in prima linea. Sono chiamati a svolgere un compito veramente arduo. Sono coloro su cui grava l’onere peggiore, la responsabilità più dura e complicata, quella più delicata, direi una responsabilità di prossimità. Gli amministratori in questo momento sono i terminali di tutte le richieste che arrivano dalla popolazione, così come lo stanno via via diventando le chiese, le parrocchie, le Caritas locali e le associazioni. Sono sempre di più le persone che bussano alle loro porte e non solo perché hanno bisogno solo di un pezzo di pane o di un piatto da mettere a tavola.

Non le sembra che in questa fase ci sia qualcuno che coglie l’occasione per soffiare sul fuoco del malcontento?
Penso che questa sia soprattutto una preoccupazione del prossimo futuro. Non vorrei essere profeta di sventura, ma sono sicuro che questo prima o poi avverrà. Sicuramente, qualunque cosa accada, assisteremo ad un generale impoverimento, aziende famiglie e singoli cittadini. E puntuale arriverà qualcuno pronto a soffiare sul fuoco del malcontento e dell’insoddisfazione. Ciò che bisogna fare è togliere armi a chi cercherà di fare questa operazione. Ci sarà un malcontento generalizzato che renderà ancora più evidente i soggetti tutelati da quelli che tutelati non sono.

Lei è stato per anni presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione: non più tardi alcuni giorni fa, celebrando la Messa a Santa Marta, il Papa è tornato sul tema della corruzione. “Il corrotto non ha vergogna, non chiede perdono, distrugge, sfrutta la gente e si mette al posto di Dio”. Cosa ne pensa?
È un concetto già ribadito dal pontefice in altre occasioni: la corruzione nella sua visione è un dato antropologico. L’idea che il Papa ha della corruzione non è quella della corruzione per così dire “laica”, ma quella di una manifestazione dell’indole umana, del soggetto che a un certo momento decide di mettersi contro la retta via. Francesco ha detto anche che “il peccato si può perdonare, la corruzione no”. Un’affermazione in linea con quanto detto pochi giorni fa perché ribadisce che il corrotto, di solito non sente il bisogno di cambiare vita, di essere perdonato. Quella del Papa, è una concezione di corruzione che va ben al di là di quella cui facciamo riferimento noi, giuristi laici, anche se ovviamente la ricomprende in maniera assoluta.

Un giudizio sugli italiani e sull’Italia che a detta di tutti, hanno dato prova di essere un grande popolo e una nazione unita, solidale, capace di tirare fuori il meglio di sé, al punto da diventare un esempio da seguire.
Io sono fiero sia dell’Italia sia degli italiani che, in questi ultimi tempi, hanno fatto enormi sacrifici e ancora li stanno facendo. Ho visto un grande rispetto delle regole, a parte qualche furbetto, e comunque si tratta di un’esigua minoranza. Io vivo in una realtà complicata come quella della provincia di Napoli, ma le posso assicurare che il tasso di adesione alle disposizioni nazionali e locali è stato elevatissimo. Devo dire poi che troppo spesso ci autoflagelliamo più del dovuto. Ci bacchettiamo eccessivamente, sia come popolo che come Paese. L’Italia su molte cose ha dimostrato di essere all’avanguardia, di fare cose egregie. Se guardo ad esempio a quanto fatto nel mio ambito specifico, non posso non riconoscere che nel campo dell’antimafia sono state messe in campo iniziative di qualità, grazie anche al contributo, a volte fino a dare la vita stessa, di uomini di straordinario valore. Credo in sostanza che stia emergendo la parte migliore degli italiani, che non è una parte assolutamente anarchica.

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