Sabato Santo. Ermes Ronchi: “E’ il tempo del silenzio, del desiderio e dell’attesa”

Ora siamo in esilio, ma un giorno tutti gli abbracci non dati saranno dati. Nel frattempo serbiamo da parte affetti, sorrisi, carezze. La Pasqua sarà anche questo. Intanto oggi, tempo di silenzio e attesa di una nuova aurora che quest'anno sarà diversa da tutte le altre, il teologo invita a porsi la domanda più grande: "Che cosa cerchiamo e che cosa desideriamo realmente?"

Il Sabato santo è un tempo di silenzio e attesa, nel quale la Chiesa non prevede alcuna liturgia. Ma liturgia, spiega al Sir p. Ermes Ronchi, teologo dell’Ordine dei Servi di Maria, scelto nel 2016 da Papa Francesco per guidare gli Esercizi spirituali di Quaresima per il Pontefice e per la Curia romana, “è anche l’offerta sull’altare della terra delle sofferenze e delle speranze di tutta l’umanità che in questi giorni di passione, nei quali la Passione di Gesù appare più che mai vicina e reale, attende piena di speranza una nuova aurora, forse diversa da tutte le altre”.

Padre Ermes, che cosa è per lei il Sabato santo?
E’ il tempo del grande silenzio, del seme nella terra; è il tempo della serietà della morte, dell’attraversamento, della pazienza e dell’attesa. Il Sabato santo, io mi immagino seduto di fronte al sepolcro a pormi la prima grande domanda di Gesù, ad ascoltarlo mentre mi chiede, come ai primi due discepoli: ma tu che cosa cerchi? Chiediamoci che cosa realmente cerchiamo: è questa la domanda fondamentale. Qual è la cosa che desidero di più nella vita, nelle relazioni, nella fede, nella politica? Per me il Sabato santo è il tempo del desiderio. Davanti alla tomba e alla serietà della morte io mi chiedo che cosa desidero per me, per la mia vita e per il mondo: è da lì che si muove tutto.

Ermes Ronchi

Desiderio deriva da de-sidera, ha a che fare con le stelle. Esprime in qualche modo l’assenza, la nostalgia e la spinta verso le stelle…
Ha a che fare con le stelle e con l’attesa. Nel “De bello gallico”, Giulio Cesare narra che i desiderantes erano quei soldati romani che dopo la battaglia si arrestavano sulla soglia dell’accampamento per aspettare il compagno, forse ferito, che non era ancora tornato. I desiderantes attendono l’amico come noi attendiamo l’Amico, Gesù. Il desiderio è mancanza, ma al tempo stesso forza che mi sospinge oltre me stesso, verso l’Altro e gli altri. Del resto

la nostra vita avanza per potenza di desideri, non per obblighi o costrizioni.

Nei Vangeli il Sabato santo è il tempo dello smarrimento dei discepoli perché il loro Maestro era stato ucciso. Quest’anno trova anche noi in una situazione di grande sofferenza, paura e incertezza del futuro.
Il Sabato santo è il momento in cui si è subito un trauma. Noi stiamo subendo quello della pandemia. Trauma viene dal greco e contiene l’idea di ferita, trafittura, di qualcosa che come una punta di freccia attraversa dolorosamente e va oltre affinché la ferita diventi feritoia per far passare la luce. Quest’anno, in particolare, è il momento in cui forse si è rotta l’anfora che noi pensavamo contenesse tutta la nostra vita. Un’anfora che non sarà ricostruita come prima perché il Signore disporrà quei cocci, che a noi sembrano inutili, in una forma nuova. Ne farà un canale affinché l’acqua non sia più trattenuta, ma sia libera di scorrere verso la sete di altri. Del resto

la specialità di Dio è lavorare con i cocci rotti e trasformarli.

Dio, appunto. Nel silenzio e nell’attesa del Sabato santo, dov’è?
La sostanza di Dio è la sua comunione con noi. E’ dentro di noi e dall’interno ci illumina, riscalda e sospinge. Oggi non si celebra alcuna liturgia. In queste settimane di tempo liturgico “forte” sono mancate e continuano a non esserci celebrazioni pubbliche nelle chiese, ma c’è il mondo, e il mondo è la prima lettera di Dio scritta a noi; è la prima pagina della Bibbia e viene prima della parola scritta. E Dio è nel mondo.

Il dramma della passione e della morte oggi è ancora più reale; così il senso di attesa in noi. Un’attesa piena di speranza, oggi più che mai, nella resurrezione di una Pasqua senza liturgie pubbliche…
Nella solitudine del deserto degli Ordos, Pierre Teilhard de Chardin nel 1923 scriveva: “Poiché ancora una volta, o Signore, non più nelle foreste dell’Aisne ma nelle steppe dell’Asia, sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del reale; e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della terra totale, il lavoro e la pena del mondo”. Questo è liturgia: salire sulle vette delle fatiche, delle miserie e delle speranze dell’umanità, metterle sull’altare, e in forza del sacerdozio invocare sulla carne dell’uomo che si prepara a rinascere il fuoco dello spirito di Dio.

Domani è Pasqua. Qual è il suo augurio?
Scoprire il valore e l’unicità di ogni persona. In questi giorni vediamo grafici e curve impennarsi su contagi, guariti e deceduti. Dietro questi numeri dobbiamo intravedere volti, immaginare gli occhi di chi non ha avuto una carezza, di chi è morto solo. L’augurio è che la Pasqua, questa Pasqua inedita, ci doni un nuovo sguardo sulla persona che deve essere al centro, venire prima degli interessi politici, economici e finanziari. Ma la Pasqua ci aiuti anche a comprendere la preziosità della vita: nulla vale quanto una vita. Potevo esserci anch’io in una di quelle povere bare portate via dai camion di notte… Bisogna imparare ad avere cura della preziosità del corpo, dell’anima e della mente. E noi, che ci credevamo signori del creato, dobbiamo prendere confidenza con il mistero, con l’imprevisto che ci supera e forse è una feritoia verso Dio.

Quando finirà tutto questo?
Un frate mio amico ha scritto una poesia in cui dice: “Un giorno tutti i baci non dati saranno dati”. Allora, anziché domandarci quando finirà tutto questo, come le donne il sabato preparavano aromi e oli profumati per portarli al corpo di Gesù, io in questo tempo accumulo scorte di volti, di occhi, di mani. Metto da parte affetto e carezze per chi sta soffrendo, intuisco sorrisi sotto le mascherine, in attesa di quella piccola profezia.

Ora siamo in esilio gli uni dagli altri, ma un giorno tutti gli abbracci non dati saranno dati.

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